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Covid-19 ed effetti sulla mente: «è un trauma collettivo senza precedenti. Importante il ruolo del corpo».

26/12/2020

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«Ci ritroveremo con molte problematiche psicologiche legate alla sindrome post traumatica scatenata dalla pandemia. Ciò che sta accadendo è del tutto inedito, non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista della salute mentale».
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Quindici massimi esperti di psicologia e psicoterapia si sono dati appuntamento da tutto il mondo a Bologna, ma senza incontrarsi fisicamente, per il convegno "Body and Psychotherapy at the time of Pandemic". Un evento eccezionale che nasce per guardare oltre l'emergenza sanitaria immediata e rispondere a tanti interrogativi importanti legati al ruolo del corpo, a quello della tecnologia, all'importanza del contatto fisico e al superamento di un trauma collettivo paragonabile solo a quello della segregazione dei nativi americani.
Come staremo fra qualche mese? Cosa possiamo e potremo fare per superare questa esperienza? Fra gli studiosi riuniti al tavolo il filosofo Umberto Galimberti; Stephen Porges, uno dei massimi neurofisiologi viventi; da Wuhan il dott. Li Wentian e ancora Vittorio Gallese; Massimo Biondi; Rubens Kignel, Corrado Sinigaglia e Ulrich Sollmann oltre ai "padroni di casa" Maurizio Stupiggia e Rosanna De Sanctis, della Società Italiana di Biosistemica di Bologna. 

Cosa ci è successo all'improvviso? Cosa ci accadrà nella fase successiva? Qualcosa di simile è mai accaduta prima? 

"E' successo che siamo stati improvvisamente catapultati in una nuova era che ha messo a dura prova la nostra connessione con il passato e con il futuro – spiega il Professor Maurizio Stupiggia -. Stiamo assistendo a due rivoluzioni temporali che si sono susseguite una dopo l’altra: una fortissima accelerazione che ha esponenzialmente destabilizzato le interazioni sociali, e ora una imprevedibile riduzione della vicinanza fisica e del contatto corporeo a causa della pandemia da CoVid-19. Durante il congresso ho voluto sottolineare come la situazione pandemica di fatto sia un trauma, in particolare un trauma collettivo: non ne esistono altri coincidenti o simili, visto che guerra e il terrorismo sono tutta un'altra cosa. Il trauma più vicino è quello della segregazione subita dei nativi americani. Anche noi come loro abbiamo subito una segregazione ed è stato interessante sapere dagli psicoantropologi americani come abbiano lavorato per ricostruire il senso di comunità e una sana individualità ricostruendo i legami con gli antenati. E questo coincide con un tentativo quasi spontaneo di tutti noi durante il primo lockdown di ricontattare persone legate alla nostra storia anche molto lontana; un moto spontaneo della ricostruzione del tessuto relazionale che ci permette di essere resilienti di fronte a questo trauma collettivo". 
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Stress traumatico da pandemia: il ruolo della "resilienza". 

Massimo Biondi, dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" ha dimostrato che cosa produce quella che viene chiamata resilienza: «Si tratta di un valore molto importante in questa fase, perché stiamo attraversando e andremo sempre di più verso un periodo di grande stress e soprattutto di stress traumatico, tanto da poter parlare di post-epidemic syndrome». Biondi dunque fa riferimento alla sindrome post-epidemica e analizza il fattore della resilienza, cioè la capacità di far fronte a queste situazioni difficili e mette in luce che dal punto di vista della corporeità è molto importante se noi facciamo pratiche della meditazione, mindsfulness, yoga cioè ciò che ha a che fare con la consapevolezza corporea. Ed ecco che torniamo a quello che dicevano Gallese e Sinigaglia, ovvero che la percezione del nostro corpo e del nostro corpo in azione, produce una capacità di sentire l‘altro, di gestire le relazioni con l’altro e di modularle in un senso ottimale per sé.
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Come Umberto Galimberti ha spiegato l’angoscia e Gallese l’importanza della tecnologia

"L’intervento di Umberto Galimberti si è focalizzato sulla difficoltà di gestire questa situazione traumatica che genera angoscia, ovvero una paura senza nome, senza oggetto né contorni e al successivo tentativo di rendere minacciose delle etnie, altri stati e regioni cercando un nemico che potesse farci passare dall’angoscia alla paura. La paura è infatti più maneggiabile". Spiega De Sanctis, psicologa e psicoterapeuta che riassume così l’intervento del noto filosofo, accademico e giornalista. 
Vittorio Gallese invece, dell’Università di Parma, ha parlato dell'importanza della tecnologia, la quale diventa protesi per costruire ponti relazionali e fare da collegamento fra esseri umani in una dimensione epocale fortemente estetizzante. Il tema dell'aestesis, il processo sensoriale di sensazione estetica quindi: "La tecnologia è interfaccia fra noi e il mondo e plasma il nostro sguardo fra noi e il mondo". 

Gli esperimenti di Corrado Sinigaglia e la percezione attraverso la mascherina 

Corrado Sinigaglia, Università di Milano, nel suo intervento ha mostrato una serie di esperimenti interessanti rispetto alla percezione umana: "Quando gli attori sono per esempio schermati da un plexiglass o da altri schermi che impediscono l'azione, tutto questo modifica la percezione umana e modifica soprattutto la percezione del comportamento e delle intenzioni dell'altro. Perché è importante questa serie di esperimenti? Perché adesso che usiamo tutti la mascherina, che è uno schermo protettivo, noi sappiamo anche sperimentalmente questo ci cambia profondamente la percezione dell'altro. E c'è poi quella tendenza strutturale dell'uomo a non stare troppo lontano dall'altro. Come a dire che se sto troppo lontano dall'altro, non ne percepisco né immagino il mondo interno. Dunque possiamo stare un po' lontani dagli altri, ma poi, a un certo punto l'innata tendenza umana e di avvicinarci”. 
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"Siamo costituiti da batteri e virus per il 40%".

Rubens Kignel, dal Brasile (Universidade de Sao Paulo), ha messo in luce la tendenza a vedere il mondo come totalmente puro e a combattere l’impurità anche in questa pandemia: "Basti pensare all’attenzione all’untore, a sconfiggere il virus". Ma Rubens facendo riferimento a studi di biologia e immunologia mostra come "noi siamo per il 40% composti da virus e batteri e siamo nati addirittura da virus e batterie che quindi noi non possiamo avere questa logica di ricerca ossessiva dell’impurità, ma piuttosto lui cerca di mostrare come la nostra vita sia una ricerca di convivenza con tutte le forme di virus". 
Fra gli interventi più rilevanti del congresso, anche quello di uno dei massimi neurofisiologi viventi, che ha influito in maniera profonda e fondamentale sulla psicoterapia: Stephen Porges, dell'Indiana University. Il suo messaggio principale è stato “safety is the treatment” (la sicurezza è la terapia): dice che noi riusciamo a calmarci, a regolarizzare il nostro metabolismo e a cambiare se ci sente in un ambiente sicuro. Porges stesso ha sperimentato che il terapeuta, quando riesce a costruire delle condizioni di sicurezza e lui stesso si pone come persona degna di fiducia, allora si giunge a una co-corregolazione reciproca e precisa e il paziente va verso il benessere e la guarigione.

Le conclusioni: un confronto utile a tutti e non solo agli addetti ai lavori

«Per gli addetti ai lavori si è trattato di un evento straordinario perché ha raggruppato i massimi esperti del settore, che qui si sono confrontati pubblicamente su questo tema per la prima volta – spiega Stupiggia - Mentre le istituzioni e la stampa si occupano solo dell’emergenza immediata, l’argomento proposto dal convegno viene trascurato sebbene sarà forse, nel proseguo della pandemia e anche dopo, la questione di maggior rilievo.  Ci ritroveremo infatti con molte problematiche psicologiche legate alla sindrome post traumatica scatenata da questa pandemia. Ciò che sta accadendo è infatti del tutto inedito, non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista della salute mentale. I terapeuti non avevano mai affrontato una emergenza tale, che richiede prospettive e strumenti totalmente nuovi».
De Sanctis ha fatto il punto sulla fruizione del seminario da parte di un target non medico, non specialistico, generalista ma altrettanto interessato: «Anche per i non addetti ai lavori è stata un’opportunità perché sono state spiegate in maniera chiara e comprensibile le dinamiche che stanno alla base di una serie di reazioni emotive e comportamentali che viviamo quotidianamente.  I relatori cercheranno di spiegare l’impatto che questa esperienza collettiva e planetaria ha su di noi, e offriranno anche strumenti praticabili di cura di sé e del proprio ambiente di vita». 
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Il parterre dei relatori internazionali presenti al convegno online 

Ozden Bademci, Maltepe University, Istanbul; Massimo Biondi, Università di Roma; Fabio Carbonari, Istituto Reich, Roma; Genovino Ferri, New York Academy of Sciences; Umberto Galimberti, Università di Venezia; Vittorio Gallese, Università di Parma; Gabriel Graca de Olivera, Universida de Brasilia; Herbert Grassmann, Parkmore Institute, Johannesburg; Rubens Kignel, Universidade de Sao Paulo; Patrizia Moselli, Società Italiana di Analisi Bioenergetica; Stephen Porges, Indiana University; Frank Rohricht, London University; Corrado Sinigaglia, Università di Milano; Ulrich Sollmann, Shanghai University; Li Wentian, Wuhan Mental Health Center; Giovanni Stanghellini, Università di Chieti. 

Chi sono Rosanna De Sanctis e Maurizio Stupiggia

Entrambi presiedono il congresso ed entrambi ne sono moderatori. Tanti i punti di contatto fra loro, uno su tutti la Società Italiana di Biosistemica di Bologna.  Rosanna De Sanctis. Psicologa, libera professionista. Presidentessa di Associazione di iDee di Bologna; didatta presso la Società Italiana di Biosistemica di Bologna e trainer per insegnanti, educatori, psicologi e supervisori.
Maurizio Stupiggia. Psicoterapeuta ad orientamento corporeo, ha integrato nel corso degli anni l’approccio sistemico-familiare con il lavoro terapeutico sul corpo. Insegna alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano. È direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Biosistemica di Bologna, opera in diversi Paesi d’Europa, in Giappone e America Latina. Ha pubblicato numerosi articoli e libri tradotti in varie lingue.

Di Erika Bertossi su www.bolognatoday.it

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Le sette regole per combattere l’ansia da limbo durante il Coronavirus

17/11/2020

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La seconda ondata di Covid e l'incertezza per il futuro stanno causando nuove forme d'ansia dovute al senso di sospensione del tempo. Gli specialisti avvertono: "l'antidoto più forte è impegnarsi in un progetto collettivo, come la protezione personale e altrui, attraverso il rispetto delle norme sanitarie".
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In questo periodo di sospensione, con l’avvio della seconda ondata di Covid, sta emergendo un nuovo tipo di disagio a livello psicologico: l'ansia da "limbo".
È un disagio che si inquadra tra gli effetti psichici indiretti del Covid-19, ma non è un'ansia generalizzata: è un'ansia specifica, da sospensione del tempo, che aumenta il malessere psichico al di là delle ricadute sociali ed economiche, con risvolti che vanno dalla difficoltà di concentrazione allo spaesamento, fino ai disturbi del sonno.
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“In relazione al Covid, una malattia virale che desta preoccupazione e angoscia perché non ha un trattamento specifico e per tutto il clamore mediatico che suscita, la sospensione del tempo è percepita da chi attende l’esito del tampone, di fare il test o la fine della quarantena, come un'attesa alterata e dilatata, apparentemente infinita”, spiega Massimo Di Giannantonio, presidente SIP e professore di Psichiatria all’Università G. D'Annunzio di Chieti-Pescara.
“Vediamo ogni giorno sempre più persone che subiscono passivamente l'attesa, che diventa una sorta di alibi per attuare un atteggiamento rinunciatario, passivo, che moltiplica i problemi – continua Di Giannantonio – Mentre ne vediamo altre insofferenti che reagiscono in modo aggressivo, a volte violento, altre ancora che tentano di non tenere conto delle limitazioni pagandone le conseguenze, anche legali".
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"Se sono presenti sintomi di tipo depressivo e ansioso la sospensione del tempo dell'attesa di un possibile evento negativo aggrava l’intensità dell'ansia” spiega Enrico Zanalda, co-presidente SIP e direttore dell'Dipartimento di Salute Mentale dell'ASL Torino 3.
L'ansia anticipatoria è un disturbo potenzialmente presente nel 5% delle persone che attendono un referto diagnostico, ma l'ansia di attesa da Covid è molto più frequente.
Nel dopo-lockdown si sono registrate moltissime diagnosi di disturbo post traumatico da stress, per questo è necessario imparare a gestire il proprio benessere psichico in questa fase d'attesa. “L'antidoto più forte è impegnarsi in un progetto collettivo, come la protezione personale e altrui, attraverso il rigoroso rispetto delle norme sanitarie, che ci consente di guardare al futuro", concludono gli esperti, che hanno definito 7 regole per contrastare l'ansia da limbo. 
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1 - Condividere le proprie emozioni e preoccupazioni;
 
2 - Informarsi scegliendo canali appartenenti a fonti istituzionali;
 
3 - Mantenere una continuità con la routine delle proprie abitudini nel rispetto delle regole sanitarie;
 
4 - Ritagliarsi uno spazio personale in cui è possibile leggere e ascoltare musica;
 
5 - Scegliere una alimentazione sana ed eseguire esercizi di rilassamento;
 
6 - Utilizzare strumenti social per scongiurare vissuti di solitudine e isolamento;
 
7 - Nel caso in cui l'ansia da limbo crei un disagio cronico e costante, contattare uno specialista;

Tratto da www.tg24.sky.it
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Toscana, l'allarme della psicologa: "Rischiamo un'onda lunga di depressione"

31/10/2020

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Maria Antonietta Gulino, presidentessa dell'Ordine degli psicologi della Toscana, è preoccupata: "Stavolta non possiamo solo dire alle persone di stare a casa, c'è un disagio che va combattuto"
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“Stavolta non possiamo solo dire alle persone fate la pasta o i dolci, dedicatevi alle pulizie, fate quello che non avete mai fatto ma state a casa. Magari in smart working e con due figli da gestire in 60-70 metri quadri. Le persone stanno male e la pandemia oltre a essere sanitaria ed economica è già da tempo psicologica. E lo sarà sempre di più”. A lanciare l’allarme è la dottoressa Maria Antonietta Gulino, presidentessa dell'Ordine degli psicologi della Toscana. “State a casa” è l'invito che è tornato ad essere pronunciato dagli scienziati e dalle istituzioni in queste settimane. Per limitare il più possibile le occasioni di contagio e cercare di contenere il virus.
Una condizione, questa, già sperimentata prima dell’estate, durante il lockdown. Ma che, complice la ripresa vigorosa del virus e la sovrapposizione con la stagione influenzale, si sta facendo di nuovo spazio. Come fare allora per mitigare le influenze negative di quella che certo non è “una condizione naturale”? “Siamo in una fase diversa dell'epidemia e del nostro stato d'animo. Non c’è un'unica ricetta - spiega la psicologa - bisogna incentivare le persone da un lato a essere responsabili, rispettando le norme che garantiscono la sicurezza della comunità e la nostra, in quanto membri della comunità stessa (gel, mascherine e distanziamento). Mentre dall’altra bisogna stimolarle a coltivare, in una dimensione nuova che è quella digitale, la loro parte relazionale, sociale”. Un esempio? “Giocare a burraco online, in videochiamata con gli amici, se si era abituati a farlo prima. Magari guardare lo stesso film e poi discuterne in chat tutti insieme. Dedicarsi a progetti e idee creative, che ci aiutino a non rendere tutte uguali le giornate”. “Ovviamente - avverte la dottoressa Gulino - la relazione digitale non potrà mai sostituire quella in presenza. Ma si tratta di una soluzione provvisoria”.  “E - continua - da questo discorso sono escluse le persone più fragili e quelli che in prima linea fronteggiano il Covid-19: ovvero medici, infermieri e operatori sanitari. Per loro c’è bisogno di maggiore supporto e assistenza psicologica. E subito. Per evitare, in futuro, di incorrere in traumi difficili da curare e in grado di creare un'onda lunga di grande depressione psicologica”. 
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Perché se il primo stop di marzo, ha generato nei cittadini “grossa ansia, attacchi di panico e paura che in molti hanno somatizzato, chi con cefalee chi con altri malesseri” adesso i nemici si chiamano “rabbia” e “depressione”. “Rispetto ai mesi scorsi paura e ansia sono sentimenti che stanno sullo sfondo. Ora c’è molta più confusione, anche ingenerata dai continui cambi di regole a cui siamo sottoposti, e molta incertezza. Soprattutto economica e per il futuro. Abbiamo poi accumulato un certo tipo di vissuto e una stanchezza di cui portiamo il peso”. 
Non a caso, questa estate, in Toscana come nel resto d'Italia la richiesta di supporto e sostegno psicologico è aumentata, come mai prima d’ora. “Ma non tutti possono permettersi la psicoterapia privata. Specialmente quelle fasce di popolazione che ne avrebbero più bisogno ma devono fare i conti con i contraccolpi economici della pandemia” ricorda Gulino che lancia un appello alle istituzioni regionali e nazionali: “I nostri servizi territoriali sono sotto organico da tempo. Oltre a medici, infermieri e operatori sanitari reclutiamo anche psicologi”.

Di Carmela Adinolfi su firenze.repubblica.it 
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Non c’è salute, senza salute psicologica

10/10/2020

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La pandemia COVID19 ci ha trascinati in una condizione di emergenza sanitaria, economica e sociale senza precedenti.
In questo nuovo e fino a poco tempo fa inimmaginabile contesto, risulta sempre più centrale la dimensione psicologica della vita.
La salute psicologica, anche in una città come Firenze, rappresenta infatti una parte essenziale del più ampio diritto alla salute che, come tale, andrebbe tutelato nella sua globalità.
È fondamentale a tal fine riconoscere e valorizzare il ruolo della psicologia nei contesti di vita quotidiana: una professione capace di intervenire non solo sulla patologia ma anche e soprattutto nella prevenzione del disagio e costruzione del benessere.
Riporto di seguito questo interessante video del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi per la Giornata Nazionale della Psicologia
 
                                                                                                       Carmen Furci, Psicologa

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Rientro a scuola, gli psicologi in allarme: per docenti e ragazzi picco di stress

14/9/2020

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Il presidente dell’Ordine David Lazzari: «Nell’ultima rilevazione (Piepoli) ansia elevata per alunni e professori»
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«Si è pensato solo e soprattutto ai banchi e ai pulmini. Ma la scuola non è una catena di montaggio, è un luogo di relazioni e di emozioni». Nel fatidico giorno del ritorno in classe dopo sei mesi, il presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi David Lazzari interviene ricordando quanto sia difficile la ripresa. Dimostrata anche dai numeri: in un report dell’Onu, nell’indagine che riguarda la popolazione italiana, risulta che in 8 casi su 10 si sono rilevati problemi di concentrazione nei ragazzi, e in 4 su 10 problemi di ansia. Non solo: «Nella nostra ultima rilevazione, che facciamo periodicamente come Ordine, insieme all’istituto Piepoli sui livelli di stress, a settembre il 34% della popolazione, dato che riguarda anche Roma, presenta stress elevato: sempre 10-15 punti sopra rispetto quella che è la media normale».
Quindi «noi psicologi siamo decisamente preoccupati», spiega David Lazzari, «perché i dati ci dicono che torna in classe una popolazione stressata, sia studenti che docenti. Così a queste persone “stressate” si sta chiedendo di mettersi alla prova in maniera importante e di affrontare una situazione difficile e complessa: oltre al normale processo di apprendimento, ci sono i timori legati al contagio e ai processi relazionali, che, soprattutto negli adolescenti sono molto delicati perché vivono in maniera molto intensa il giudizio del gruppo, con un grandissimo bisogno di conformarsi».
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E si passa quindi al delicato compito di insegnanti e genitori: come si dovrebbero comportare? «Da parte dei docenti c’è la necessità di far rispettare le regole ma anche di attivare processi relazionali non sempre facili», risponde David Lazzari: «Sentire le paure loro ed anche quelli dei ragazzi. Tutto questo richiede un equilibrio molto delicato. Per questo dico di creare un clima di alleanza e di cooperazione. I comportamenti non dipendono da regole astratte ma da come percepiamo le cose e dai nostri vissuti». Quanto ai genitori «il consiglio è di porsi più del solito in un atteggiamento di dialogo e di ascolto dei figli, affinché non si vergognino di tirar fuori le loro preoccupazioni ed i loro timori. E, soprattutto per i più piccoli, trovando un linguaggio adatto alla loro età nello spiegare il perché delle regole di protezione. Ma quando vedono che c’è un disagio eccessivo chiedano aiuto ad un esperto».
Proprio per questo il presidente dell’Ordine degli Psicologi richiede che venga attuato con urgenza l’accordo tra governo e sindacati del 6 agosto dove si parla di dotare gli istituti di competenze psicologiche. «È un discorso è di grande urgenza altrimenti la scuola rischia di essere un ulteriore incubatore di disagio. Si deve ricorrere all’aiuto dello psicologo in maniera non episodica ma sistematica».

Di Lilli Garrone, tratto da corriere.it 
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I disturbi psichiatrici nei sopravvissuti al Covid 19

7/9/2020

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A un mese dalla guarigione, il 56% di chi ha ricevuto trattamenti ospedalieri per Covid 19 soffre di ansia, depressione o stress post-traumatico.
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C'è urgente bisogno di seguire, valutare e curare anche i guariti da Covid 19: secondo uno studio condotto dal San Raffaele di Milano, oltre la metà delle persone che hanno ricevuto una qualche forma di trattamento ospedaliero per CoViD-19 riporta almeno un sintomo di disturbi come ansia, depressione, stress post-traumatico, insonnia o altre manifestazioni. La storia personale di ciascuno, la durata del ricovero e anche il genere del paziente influiscono sull'entità di questi strascichi, che vanno trattati prima che possano degenerare in condizioni croniche fortemente debilitanti.

TRACCE PERSISTENTI. I ricercatori hanno indagato sulla presenza di sintomi di natura psichiatrica in 402 persone dell'età media di 58 anni guariti dal Covid, 265 dei quali uomini. Per 300 pazienti si era reso necessario il ricovero in ospedale, mentre un centinaio era stato seguito dai medici dell'ospedale nelle proprie case. Le valutazioni sono state condotte attraverso colloqui clinici e questionari di autovalutazione. Il 56% dei soggetti seguiti ha riportato un punteggio clinico compatibile con almeno un disturbo mentale: stress post-traumatico nel 28% dei casi, depressione nel 31%, ansia per il 42% degli intervistati. Il 40% ha dichiarato di soffrire di insonnia, il 20% ha manifestato i sintomi di un disturbo ossessivo-compulsivo (caratterizzato da pensieri intrusivi, oltre a comportamenti rituali e ripetitivi).
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CHI SOFFRE DI PIÙ. Le donne sembrano più soggette alle conseguenze psichiatriche della malattia, nonostante siano in genere colpite da forme meno gravi dell'infezione: «Questo conferma quello che già sapevamo, ossia la maggiore predisposizione della donna a poter sviluppare disturbi della sfera ansioso-depressiva, e ci conduce a ipotizzare che questa maggiore vulnerabilità possa essere dovuta anche al diverso funzionamento del sistema immunitario nelle sue componenti innate e adattive», spiega Francesco Benedetti, psichiatra che coordina l'Unità di ricerca in Psichiatria e psicobiologia clinica dell'IRCCS Ospedale San Raffaele.
Chi aveva già alle spalle una storia di diagnosi psichiatriche ha visto questi sintomi peggiorare. Ma il dato forse più sorprendente è che i pazienti assistiti nel proprio domicilio sono risultati soffrire più degli altri di ansia e disturbi del sonno, mentre la durata del ricovero è inversamente proporzionale a sintomi di stress post-traumatico, depressione, ansia e disturbi ossessivo-compulsivi. Il team spiega così questo aspetto: «Considerando la maggiore gravità del Covid nei pazienti ospedalizzati, le osservazioni suggeriscono che un minore supporto sanitario - che è ciò che è successo ai pazienti seguiti a casa - potrebbe aver aumentato l'isolamento sociale e la solitudine tipici della pandemia». Si conferma quindi l'importanza della presenza del personale (medico, infermieristico e di supporto) per lenire la solitudine e il senso di spaesamento tipici del Covid.
LE CAUSE. All'origine dei disturbi potrebbero esserci gli stati infiammatori associati alla malattia e legati alla risposta immunitaria dell'organismo. È noto infatti che gli stati infiammatori, anche conseguenti a infezioni virali, sono fattori di rischio per disturbi come la depressione. Ma un impatto importante potrebbero averlo avuto anche fattori sociali, come lo stress psicologico associato a una condizione sconosciuta e potenzialmente letale, l'isolamento forzato da parenti e personale medico, la paura di trasmettere il virus ad altri, il pregiudizio che purtroppo sempre ruota attorno a chi è malato.

Di Elisabetta Intini. Tratto da www.focus.it
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Prendiamoci una pausa, per respirare…

8/8/2020

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Anche quest’anno è arrivato il momento in cui sento di aver proprio bisogno di una pausa. 
E anche quest’anno, l’invito che mi rivolgo e vi rivolgo è: troviamo del tempo per noi stessi, per osservare meglio quello che ci sta intorno e andare e alla ricerca della nostra “pausa” ideale. 
 I modi per riposarsi sono diversi: andare al mare, andare in montagna, leggere, dormire, passeggiare, visitare un museo e tanto altro. Ma ciò che più conta è tuttavia l’intenzione di fermarsi, respirare e occuparsi al meglio di noi stessi, per “ricaricare il nostro carburante interiore”. 

Lo studio di psicologia e psicoterapia di Via delle Mantellate 3 a Firenze rimarrà chiuso dal 10 al 31 agosto, per la mia “pausa” ideale. 
Buona vacanze!
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Lo sapevi che scegliamo il cibo in base alla nostra personalità?

6/7/2020

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Che relazione c'è tra nevroticismo, estroversione, apertura all’esperienza, coscienziosità, gradevolezza e la scelta del cibo e dello stile alimentare?
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Sembra che la personalità influenzi il modo di alimentarsi e possa, quindi, essere considerata un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche.
Un recente studio condotto da Keller e Siegrist (2015) si è proposto di indagare se i tratti di personalità influenzano le scelte alimentari delle persone o l’adozione di un particolare stile alimentare. Nello specifico, viene considerato il modello dei “Big Five” (McCrae & Costa, 1997), il quale caratterizza gli individui in termini di pattern relativamente duraturi e universali di pensieri, sentimenti e azioni (McCrae & Costa, 2008): elevati livelli di nevroticismo comportano un maggior rischio di depressione, ostilità e sentimenti di inutilità; elevati livelli di estroversione si associano all’essere attivo, ottimista e assertivo; elevata apertura all’esperienza comporta maggiore curiosità e capacità di immaginazione; le persone con elevata coscienziosità tendono ad essere più ordinati e autodisciplinati; infine, la gradevolezza è caratterizzata da maggior altruismo e simpatia (McCrae & Costa, 1997, 2008). Per quanto concerne gli stili alimentari, Keller e Siegrist (2015), hanno individuato il “mangiare emotivo”, ovvero il consumo di cibo in risposta a emozioni negative o a stress, il “mangiare esterno”, ossia in risposta a stimoli alimentari esterni, e, infine, “l'alimentazione moderata”, cioè la restrizione consapevole di cibi energetici (Van Strien & Van de Laar, 2008).
La ricerca considera 951 partecipanti, a cui sono stati somministrati tre differenti questionari. I tratti di personalità sono stati valutati utilizzando il NEO Five – Factor Inventory (Costa e McCrae 1992): ai partecipanti è stato chiesto di indicare quanto bene ognuno dei 60 item li ha descritti, su una scala Likert a 5 punti (da per nulla accurato a molto accurato). Gli stili alimentari, invece, sono stati valutati con l’ Eating Behavior Questionnaire (DEBQ) (Van Strie net al. 1986), composto da 33 items a cui i partecipanti hanno risposto tramite una scala likert a 5 punti (da mai a molto spesso): la scala dell’alimentazione moderata comprende 10 items che misurano il controllo del peso, un tipico item è “quando hai messo su peso, mangi meno di quanto mangi di solito?” oppure “Tieni conto del tuo peso mentre mangi?”; la scala emozionale della DEBQ è composta da 13 items che indagano il mangiare in risposta a stati emotivi negativi, ad esempio “Quando sei irritato ti viene voglia di mangiare?”; la scala esterna, invece, si compone di 10 items che misurano il consumo di cibo in risposta a stimoli esterni, indipendentemente dallo stato di fame o sazietà, ad esempio “Se il cibo è buono, mangi più del solito?” oppure “Se vedi che altri mangiano, viene anche a te la voglia di mangiare?”. Infine, è stato utilizzato il Food Frequency questionnaire (FFQ) per indagare con quanta frequenza vengono consumati cibi dolci, salati, verdure, insalata, frutta, carne e bevande zuccherate.
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Rispetto agli uomini, le donne del campione avevano un maggiore livello di nevroticismo, di apertura all’esperienza e di gradevolezza; inoltre, risultano più contenute nel mangiare, consumano più frutta, verdura e insalata, meno carne e meno bevande zuccherate. E’ inoltre emerso che i fattori di personalità correlano con gli stili e le scelte alimentari delle persone. Nello specifico, le persone estroverse, con una fitta rete sociale (Friedman et al. 2010), avendo più spesso occasione di uscire fuori a pranzo o a cena, sono più esposti al cibo buono ed esteticamente invitante, ovvero la cosiddetta “alimentazione esterna”. I soggetti con elevato nevroticismo tendono ad avere uno stile alimentare più improntato all’emotività e all’esterno, oltre che ad essere poco moderato e a scegliere in misura pressoché simile cibi dolci e salati. Al contrario, individui coscienziosi tendono ad avere uno stile alimentare poco emotivo ed esterno e più propenso alla dieta, prediligendo il consumo di verdure e insalate. Coloro che sono più aperti alle nuove esperienze privilegiano frutta e verdura, a scapito di carne e bevande zuccherate, esattamente come i soggetti con il tratto di personalità “gradevolezza”. I risultati rivelano anche che l’alimentazione esterna, a sua volta, si associa negativamente al consumo di frutta, che invece è associata positivamente con l’alimentazione moderata. Lo stile alimentare moderato si associa in modo positivo al consumo di verdura e insalata. L’apertura all’esperienza non ha mostrato di avere effetti significativi sul dolce e sul salato, a differenza della sovralimentazione, dell’alimentazione esterna ed emotiva che hanno una correlazione positiva. Inoltre, avere un’alimentazione moderata correla negativamente con il consumo di cibi dolci e salati. L’estroversione sembra essere l’unico tratto fra quelli analizzati ad avere un effetto positivo sul consumo di carne e sul consumo di bevande zuccherate, così come soltanto l’alimentazione esterna si associa positivamente al consumo di carne e di bevande zuccherate, mentre tutti gli altri stili e tratti correlano negativamente.
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Questi risultati hanno chiaramente dimostrato che le caratteristiche di personalità giocano un ruolo alquanto importante nella scelta del cibo, così come nello stile alimentare in sé. E’ chiaro che individui nevrotici e emotivamente instabili adottino un’alimentazione emotiva poco salutare, utilizzando il cibo proprio come strumento per far fronte alle emozioni negative (Groesz et al., 2012). Al contrario, soggetti con alti livelli di coscienziosità sembrano adottare un’alimentazione più equilibrata, escludendo cibi poco sani, probabilmente grazie alla propria capacità di evitare o di gestire i fattori stressanti (Shanahan et al., 2014). L’apertura nei confronti delle esperienze gioca un ruolo importante nell’adesione dei singoli ad una dieta sana ed equilibrata (Tiainen et al., 2013): probabilmente questi soggetti sono sempre stati più predisposti ad assaggiare un’ampia gamma di alimenti, incluso cibi più amari, ma certamente più sani come frutta e verdura (Birch, 1999). Infine, la gradevolezza correla negativamente, mentre l’estroversione positivamente con il consumo di carne. Nel primo caso, probabilmente il tratto viene proiettato ed esteso, non soltanto alle persone, ma anche agli animali, tant’è che le motivazioni alla base, spesso, sono etiche, incentrate sulla simpatia e l’altruismo (Forestell et al., 2012). Nel secondo caso, l’estroversione è stata associata con l’alimentazione esterna, a sua volta associata con un maggior consumo di carne, probabilmente sia per il costo relativamente inferiore, che per la maggiore praticità nel cucinarla rispetto, ad esempio, alla verdura. Interessante è sottolineare il paradosso tra l’estroversione, come tratto benefico e protettivo per la salute mentale, e l’estroversione come fonte di rischio per un’alimentazione poco corretta, in quanto espone i soggetti al consumo di cibi che fanno poco bene se consumati frequentemente. Così, la personalità di una persona può essere un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche come quelle cardiovascolari, cancro o diabete. Infine, di grande interesse sarebbe esplorare eventuali correlazioni tra la personalità e la scelta di intraprendere un’alimentazione vegetariana o vegana. 

Di Catia Lo Russo, tratto da www.stateofmind.it
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Nel ritorno alla normalità dopo la quarantena sembriamo tutti affetti da sindrome post traumatica

28/6/2020

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​Non ricordo più dove e quando, ma ho letto la lettera di una donna americana a un giornale. Raccontava di aver superato da poco e dopo molta psicanalisi un serio disturbo: la misofobia. Aveva paura dello sporco e, più precisamente, dei germi.  Dopo sette anni di compulsioni come il lavarsi ossessivamente le mani e darsi a pulizie maniacali ogni santo giorno, era riuscita a superarla. Si sentiva dunque pronta a tornare alla vita sociale senza rischiare, ogni volta, di mettere in crisi le sue relazioni personali e professionali a causa del suo disturbo. Purtroppo per lei – e per tutti noi –, però, era arrivato il coronavirus. La donna era riprecipitata nell’ansia, nel panico e, soprattutto, nella confusione. Raccontava che proprio quei comportamenti che le venivano contestati di solito, le cose per cui la gente la guardava in maniera strana e su cui alcuni “amici” facevano battutine sarcastiche, ora erano abitudini consigliate da tutti. Ogni mattina si svegliava chiedendosi quale fosse la realtà, quali azioni quelle giuste. Stava vivendo, di nuovo, da capo, una situazione molto difficile, la si chiamava PTSD, ovvero disturbo post-traumatico da stress.
Questa cosa mi ha ricordato un bel film di Jeff Nichols, Take Shelter, in cui Curtis, uomo tranquillo che vive in una piccola cittadina con moglie e figlio, un giorno, dal nulla, inizia ad avere degli incubi, terribili visioni di una catastrofe imminente. La cosa lo porta ad agire in modo strano e paranoide e, quando comincia a costruire una sorta di rifugio anti-tornado nel cortile di casa, la tensione nel matrimonio e con gli altri cittadini aumenta. L’uomo è trattato come un pazzo per buona parte della pellicola, e a un certo punto se ne convince lui stesso. Non dirò come va a finire la sua storia, ma suppongo che tutti quelli che, prima della pandemia, avevano una qualche fobia o forma d’ansia sociale, sappiano com’è veder confermati dalla collettività timori catalogati solitamente come irrazionali e i propri sintomi come prassi consigliate per la sicurezza della salute pubblica.
Personalmente, durante la Fase 1 della gestione dell’epidemia, mi sentivo assai più pronta di altri a restarmene tappata in casa e uscire solo per necessità non prorogabili tipo la spesa. C’ero già abituata, ero già in smart working, avevo già avuto una serie di problemi che mi avevano portata a restarmene sola nel mio appartamento. La differenza, stavolta, è che la mia situazione era condivisa con buona parte della popolazione. Per la prima volta, un mio periodo difficile, combaciava con quello degli altri. Per questo motivo, era assai più semplice esser sinceri sulle proprie paure e trovare solidarietà nel manifestare le proprie difficoltà. Questa sensazione però è durata poco. Non che io rimpianga il clima di terrore, l’ansia comune, le auto della Protezione Civile a ripetere di restare a casa, le canzoni dai balconi e i telegiornali con il bollettino di una guerra nuova, diversa da tutte le altre. È che anche la Fase 2 ha riportato alla mia memoria una storia lontana, del tutto privata e più difficile da spartire. Nel 2003, ho passato molti mesi dentro e fuori da un ospedale. Ero molto giovane e, in quel momento, mi interessava solo risolvere il mio problema – sperando vi fosse una soluzione – e tornare alla vita per come la conoscevo. Quello che non avevo messo in conto, però, è che l’anno successivo, prontissima per tornare alla tanto agognata normalità, avrei dovuto fare i conti con gli attacchi di panico connessi proprio al trauma che avevo vissuto senza riuscire a superarlo.
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Il PTSD è noto anche come “nevrosi da guerra”, perché inizialmente fu riscontrato nei soldati reduci da operazioni belliche particolarmente cruente. Il film American Sniper di Clint Eastwood, basato sull’omonima autobiografia di Chris Kyle, mostra in maniera piuttosto particolareggiata cosa succede in questi casi, anche se in realtà la patologia può svilupparsi anche senza esser mai stati coinvolti in vere e proprie azioni militari: gli eventi traumatici sono vari, in genere si tratta di situazioni violente in cui si subisce o assiste a eventi percepiti come al di fuori del nostro controllo, cose come un incidente stradale, un’aggressione o, nel mio caso, un’improvvisa malattia. Ci si ritrova, allora, a evitare situazioni e contesti che ricordano, simboleggiano o sono in qualche modo associati all’evento traumatico. Le limitazioni dal punto di vista delle relazioni sociali vengono di riflesso, perché spesso si smette di frequentare i luoghi abituali. Le abitudini cambiano. Vivere momenti sereni è quasi impossibile. Si resta costantemente in tensione e in allerta, ipersensibili alle possibilità di pericolo e in uno stato del genere, rilassarsi o calmarsi, persino addormentarsi, diventa complicato. Per chi soffre di PTSD anche le cose più semplici sono accompagnate da ansia e paura. La sensazione è quella che stia per accadere, di nuovo, qualcosa di tremendo.
Questi sintomi possono comparire subito dopo il trauma e possono durare poco, ma di solito si sviluppano in seguito al superamento dell’esperienza, quando cioè ormai sembra tutto risolto o gli altri ci dicono che è effettivamente così. Proprio per questo motivo, l’ansia e la paura vengono nascoste, il problema sottaciuto, soprattutto per evitare di sentirsi dire ovvietà. Si cerca di convincersi che è tutto finito, che bisogna riaffacciarsi alla vita, che stia soltanto a noi. E purtroppo è una bugia. Una bugia che, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, ci stiamo dicendo in molti proprio in questi giorni. Anche se è difficile ammetterlo, infatti, è quello che sta accadendo a molte persone in questa Fase 2, di cauto ritorno alla normalità. Se durante la fase emergenziale avevamo imparato ad aprirci e a essere sinceri sui nostri timori, vuoi perché ci sembravano ampiamente condivisibili, vuoi perché li avevano e ammettevano di averli assai più persone del solito, in questa seconda fase è come essere tornati indietro, e risulta assai più complicato esprimere il proprio pensiero, la propria insicurezza e il proprio bisogno di procedere per gradi nella ripresa della vita pubblica e sociale senza subire giudizi di varia natura.
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Il richiamo alla produttività, l’esigenza di riprendere la quotidianità proprio dove l’avevamo lasciata all’inizio dell’anno, l’idea della ripresa e della ripartenza, non sono accompagnate, come speravamo ai tempi dell’Andrà tutto bene, dalla possibilità di rilassarsi, finalmente, e riaffacciarsi alla socialità con un grande sorriso e senza alcuna paura. Le parole d’ordine sono responsabilità, distanza sociale, mascherina, guanti e cozzano tutte con l’ideale di serenità a cui aspiravamo. È un compromesso. E i compromessi non solo ci spaventano e hanno lo stigma dell’espediente, ma sono molto più complicati da gestire delle limitazioni, come ha spiegato Thomas Kean, ex governatore del New Jersey e presidente della Commissione sull’11 settembre. Anche affidarsi al buonsenso, proprio e altrui, non è così semplice. E non lo è non solo perché abbiamo tantissimi esempi di situazioni o comportamenti a rischio, ma perché, attenuata la paura del coronavirus, abbiamo ricominciato ad averla degli altri. Mentre si paventa la figura dell’assistente civico per far rispettare le norme, mentre si criminalizza un’intera generazione che, sulla base di messaggi contraddittori, è tornata a frequentare luoghi di ritrovo pensati appositamente per loro e nuovamente aperti proprio per accoglierli, in tantissimi stanno sviluppando la strana sensazione definita sindrome della capanna.
Scriveva Montaigne che “niente fissa una cosa così intensamente nella memoria come il desiderio di dimenticarla” e in Italia questo vale per moltissime cose, situazioni, avvenimenti che hanno segnato la storia del Paese. Siamo abituati a procedere per logiche emergenziali e, per ogni sconvolgimento, ci aspettiamo che una volta fuori dalla straordinarietà, sia risolto, mentre invece resta a farsi problema cronico. La verità è che per trasformare una ferita in cicatrice occorre non solo tempo, ma bisogna anche smettere di nasconderla. La verità è che non ci manca il lockdown, ma la possibilità di dare un nome alla nostra incertezza, chiamarla paura e sapere che nessuno ci giudicherà per averla perché, per la prima volta, la stiamo guardando in faccia tutti.

Di RAFFAELLA R. FERRÉ 
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Coronavirus, 200.000 persone depresse in più a causa della crisi economica

17/6/2020

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I dati della Fondazione Onda-Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere

IN POCHI ATTIMI il virus si è portato via tutto: sogni, desideri. C'è chi ha dovuto tirare giù per sempre la saracinesca del negozio o del ristorante avviato dopo anni di fatica. Chi non è mai tornato in azienda perché è stato licenziato o chi si trova in cassaintegrazione. Da situazione il passo che porta alla depressione è breve. Molti non ce la fanno e si ammalano. Oggi in Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia, si stimano oltre 150.000 persone con depressione maggiore. Un problema globale tanto che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che l’emergenza Coronavirus riguardi anche la salute mentale.
“L’emergenza sanitaria prolunga la sua ombra sul benessere psicologico delle persone, con effetti a breve e a lungo termine i cui esiti si potranno vedere anche nei prossimi anni”, spiega Claudio Mencacci, Direttore Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale, ASST Fatebenefratelli-Sacco, Milano. "Nell’arco di qualche mese si è verificato, infatti, un aumento dei sintomi depressivi nella popolazione a causa della concomitanza di più fattori di rischio quali distanziamento sociale, solitudine, paura del contagio ed evitamento, ma prevediamo anche una crescita delle depressioni dovuta da un lato alle conseguenze di una serie di lutti complicati e dall’altro dall’imminente crisi economica". 

L'economia
L'economia ha un ruolo importante in questo contesto. "Basso reddito e aumento della disoccupazione determineranno, secondo diversi studi, un rischio 2-3 volte superiore di ammalarsi. In particolare, la disoccupazione generata dalla crisi economica potrebbe determinare un aumento dai 150-200.000 casi di depressione, pari al 7% delle persone depresse. Con queste prospettive il numero di depressi si appresta a raggiungere quello di malati di diabete in Italia, con un maggior impatto della depressione sia a livello economico sia sulla qualità di vita", spiega Mencacci.

La depressione è riconosciuta dall’Oms come prima causa di disabilità a livello mondiale e riguarda circa 3 milioni di italiani, di cui circa 1 milione soffre della forma più grave, la depressione maggiore. Da una stima dei dati Istat, oltre 150.000 persone soffrono di depressione maggiore in Lombardia. Tra questi 21.000 non rispondono ai trattamenti, secondo la rielaborazione su base regionale dei dati dello studio epidemiologico italiano Dory, volto a identificare i pazienti affetti da depressione resistente attraverso un’analisi di database amministrativi.
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​Togliere lo stigma

Istituzioni e rappresentati locali a livello medico, assistenziale e sociale stanno cercando di capire come affrontare la malattia, superare lo stigma associato alla depressione, facilitare l’accesso alla diagnosi e alle cure più appropriate.  Fondazione Onda-Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, ha organizzato una serie di incontri a Milano sul tema. Tavole rotonde che fanno parte del percorso di sensibilizzazione per presentare il Manifesto Uscire dall’ombra della depressione, ma anche del Libro bianco sulla salute mentale in Italia. Iniziative realizzate con il patrocinio di Regione Lombardia, delle società scientifiche Sip - Società Italiana di Psichiatria e Sinpf - Società Italiana di Neuropsicofarmacologia, di Cittadinanzattiva e Progetto Itaca, ed è stata organizzata con contributo incondizionato di Janssen Italia.

I costi della malattia
"I costi diretti non sono l’unico tassello da tenere in considerazione se si vuole cogliere il peso economico e sociale di questa patologia. I costi indiretti (sociali e previdenziali) la fanno da padrone rappresentando il 70% del totale dei costi della malattia - spiega Francesco Saverio Mennini, professore di Economia Sanitaria e Direttore del Eehta del Ceis dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “Basti pensare ai costi previdenziali legati all’elevato numero di giorni di assenza dal lavoro causato dalla depressione maggiore, alla perdita di produttività legata al presenteismo. Visto l’incremento previsto del numero delle persone con depressione in seguito alla pandemia di Covid-19, il peso economico della malattia è destinato ad aumentare".
Anche il costo legato agli assegni ordinari di invalidità e alle pensioni di inabilità, che si aggira intorno ai 106 milioni di euro, pari a 9.500 euro annui a beneficiario, rientra tra quelli indiretti legati alla malattia. In Lombardia, secondo un’analisi dell’Eehta del Ceis (Economic Evaluation and HTta Ceis) basata su dati del 2015, tali prestazioni di invalidità previdenziale vengono concesse a 1,3 persone con depressione maggiore ogni 100.000 abitanti. Analizzando la situazione per provincia, a Cremona sono state accolte 2,8 domande di invalidità previdenziale, a cui segue Como con 2,7, Varese con 1,8, Mantova con 1,5, Bergamo con 1,4, Pavia con 1,1, Milano e Brescia con 1,0 e infine Sondrio con 0,0 ogni 100.000 abitanti.
"Questi dati testimoniano che stiamo parlando di una malattia fortemente invalidante, che impatta in maniera significativa sulla vita dei pazienti e della società, da molteplici punti di vista - conclude Mennini -. Gestire il paziente in una fase precoce della malattia consente non solo un miglioramento della sua qualità di vita, ma anche una riduzione dell’impatto dei costi per il sistema sanitario e sociale".

Articolo di di VALERIA PINI, tratto da Repubblica.it 
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