Nel ritorno alla normalità dopo la quarantena sembriamo tutti affetti da sindrome post traumatica28/6/2020 Non ricordo più dove e quando, ma ho letto la lettera di una donna americana a un giornale. Raccontava di aver superato da poco e dopo molta psicanalisi un serio disturbo: la misofobia. Aveva paura dello sporco e, più precisamente, dei germi. Dopo sette anni di compulsioni come il lavarsi ossessivamente le mani e darsi a pulizie maniacali ogni santo giorno, era riuscita a superarla. Si sentiva dunque pronta a tornare alla vita sociale senza rischiare, ogni volta, di mettere in crisi le sue relazioni personali e professionali a causa del suo disturbo. Purtroppo per lei – e per tutti noi –, però, era arrivato il coronavirus. La donna era riprecipitata nell’ansia, nel panico e, soprattutto, nella confusione. Raccontava che proprio quei comportamenti che le venivano contestati di solito, le cose per cui la gente la guardava in maniera strana e su cui alcuni “amici” facevano battutine sarcastiche, ora erano abitudini consigliate da tutti. Ogni mattina si svegliava chiedendosi quale fosse la realtà, quali azioni quelle giuste. Stava vivendo, di nuovo, da capo, una situazione molto difficile, la si chiamava PTSD, ovvero disturbo post-traumatico da stress. Questa cosa mi ha ricordato un bel film di Jeff Nichols, Take Shelter, in cui Curtis, uomo tranquillo che vive in una piccola cittadina con moglie e figlio, un giorno, dal nulla, inizia ad avere degli incubi, terribili visioni di una catastrofe imminente. La cosa lo porta ad agire in modo strano e paranoide e, quando comincia a costruire una sorta di rifugio anti-tornado nel cortile di casa, la tensione nel matrimonio e con gli altri cittadini aumenta. L’uomo è trattato come un pazzo per buona parte della pellicola, e a un certo punto se ne convince lui stesso. Non dirò come va a finire la sua storia, ma suppongo che tutti quelli che, prima della pandemia, avevano una qualche fobia o forma d’ansia sociale, sappiano com’è veder confermati dalla collettività timori catalogati solitamente come irrazionali e i propri sintomi come prassi consigliate per la sicurezza della salute pubblica. Personalmente, durante la Fase 1 della gestione dell’epidemia, mi sentivo assai più pronta di altri a restarmene tappata in casa e uscire solo per necessità non prorogabili tipo la spesa. C’ero già abituata, ero già in smart working, avevo già avuto una serie di problemi che mi avevano portata a restarmene sola nel mio appartamento. La differenza, stavolta, è che la mia situazione era condivisa con buona parte della popolazione. Per la prima volta, un mio periodo difficile, combaciava con quello degli altri. Per questo motivo, era assai più semplice esser sinceri sulle proprie paure e trovare solidarietà nel manifestare le proprie difficoltà. Questa sensazione però è durata poco. Non che io rimpianga il clima di terrore, l’ansia comune, le auto della Protezione Civile a ripetere di restare a casa, le canzoni dai balconi e i telegiornali con il bollettino di una guerra nuova, diversa da tutte le altre. È che anche la Fase 2 ha riportato alla mia memoria una storia lontana, del tutto privata e più difficile da spartire. Nel 2003, ho passato molti mesi dentro e fuori da un ospedale. Ero molto giovane e, in quel momento, mi interessava solo risolvere il mio problema – sperando vi fosse una soluzione – e tornare alla vita per come la conoscevo. Quello che non avevo messo in conto, però, è che l’anno successivo, prontissima per tornare alla tanto agognata normalità, avrei dovuto fare i conti con gli attacchi di panico connessi proprio al trauma che avevo vissuto senza riuscire a superarlo. Il PTSD è noto anche come “nevrosi da guerra”, perché inizialmente fu riscontrato nei soldati reduci da operazioni belliche particolarmente cruente. Il film American Sniper di Clint Eastwood, basato sull’omonima autobiografia di Chris Kyle, mostra in maniera piuttosto particolareggiata cosa succede in questi casi, anche se in realtà la patologia può svilupparsi anche senza esser mai stati coinvolti in vere e proprie azioni militari: gli eventi traumatici sono vari, in genere si tratta di situazioni violente in cui si subisce o assiste a eventi percepiti come al di fuori del nostro controllo, cose come un incidente stradale, un’aggressione o, nel mio caso, un’improvvisa malattia. Ci si ritrova, allora, a evitare situazioni e contesti che ricordano, simboleggiano o sono in qualche modo associati all’evento traumatico. Le limitazioni dal punto di vista delle relazioni sociali vengono di riflesso, perché spesso si smette di frequentare i luoghi abituali. Le abitudini cambiano. Vivere momenti sereni è quasi impossibile. Si resta costantemente in tensione e in allerta, ipersensibili alle possibilità di pericolo e in uno stato del genere, rilassarsi o calmarsi, persino addormentarsi, diventa complicato. Per chi soffre di PTSD anche le cose più semplici sono accompagnate da ansia e paura. La sensazione è quella che stia per accadere, di nuovo, qualcosa di tremendo. Questi sintomi possono comparire subito dopo il trauma e possono durare poco, ma di solito si sviluppano in seguito al superamento dell’esperienza, quando cioè ormai sembra tutto risolto o gli altri ci dicono che è effettivamente così. Proprio per questo motivo, l’ansia e la paura vengono nascoste, il problema sottaciuto, soprattutto per evitare di sentirsi dire ovvietà. Si cerca di convincersi che è tutto finito, che bisogna riaffacciarsi alla vita, che stia soltanto a noi. E purtroppo è una bugia. Una bugia che, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, ci stiamo dicendo in molti proprio in questi giorni. Anche se è difficile ammetterlo, infatti, è quello che sta accadendo a molte persone in questa Fase 2, di cauto ritorno alla normalità. Se durante la fase emergenziale avevamo imparato ad aprirci e a essere sinceri sui nostri timori, vuoi perché ci sembravano ampiamente condivisibili, vuoi perché li avevano e ammettevano di averli assai più persone del solito, in questa seconda fase è come essere tornati indietro, e risulta assai più complicato esprimere il proprio pensiero, la propria insicurezza e il proprio bisogno di procedere per gradi nella ripresa della vita pubblica e sociale senza subire giudizi di varia natura. ![]() Il richiamo alla produttività, l’esigenza di riprendere la quotidianità proprio dove l’avevamo lasciata all’inizio dell’anno, l’idea della ripresa e della ripartenza, non sono accompagnate, come speravamo ai tempi dell’Andrà tutto bene, dalla possibilità di rilassarsi, finalmente, e riaffacciarsi alla socialità con un grande sorriso e senza alcuna paura. Le parole d’ordine sono responsabilità, distanza sociale, mascherina, guanti e cozzano tutte con l’ideale di serenità a cui aspiravamo. È un compromesso. E i compromessi non solo ci spaventano e hanno lo stigma dell’espediente, ma sono molto più complicati da gestire delle limitazioni, come ha spiegato Thomas Kean, ex governatore del New Jersey e presidente della Commissione sull’11 settembre. Anche affidarsi al buonsenso, proprio e altrui, non è così semplice. E non lo è non solo perché abbiamo tantissimi esempi di situazioni o comportamenti a rischio, ma perché, attenuata la paura del coronavirus, abbiamo ricominciato ad averla degli altri. Mentre si paventa la figura dell’assistente civico per far rispettare le norme, mentre si criminalizza un’intera generazione che, sulla base di messaggi contraddittori, è tornata a frequentare luoghi di ritrovo pensati appositamente per loro e nuovamente aperti proprio per accoglierli, in tantissimi stanno sviluppando la strana sensazione definita sindrome della capanna. Scriveva Montaigne che “niente fissa una cosa così intensamente nella memoria come il desiderio di dimenticarla” e in Italia questo vale per moltissime cose, situazioni, avvenimenti che hanno segnato la storia del Paese. Siamo abituati a procedere per logiche emergenziali e, per ogni sconvolgimento, ci aspettiamo che una volta fuori dalla straordinarietà, sia risolto, mentre invece resta a farsi problema cronico. La verità è che per trasformare una ferita in cicatrice occorre non solo tempo, ma bisogna anche smettere di nasconderla. La verità è che non ci manca il lockdown, ma la possibilità di dare un nome alla nostra incertezza, chiamarla paura e sapere che nessuno ci giudicherà per averla perché, per la prima volta, la stiamo guardando in faccia tutti. Di RAFFAELLA R. FERRÉ su thevision.comS su U su
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I dati della Fondazione Onda-Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere
IN POCHI ATTIMI il virus si è portato via tutto: sogni, desideri. C'è chi ha dovuto tirare giù per sempre la saracinesca del negozio o del ristorante avviato dopo anni di fatica. Chi non è mai tornato in azienda perché è stato licenziato o chi si trova in cassaintegrazione. Da situazione il passo che porta alla depressione è breve. Molti non ce la fanno e si ammalano. Oggi in Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia, si stimano oltre 150.000 persone con depressione maggiore. Un problema globale tanto che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che l’emergenza Coronavirus riguardi anche la salute mentale. “L’emergenza sanitaria prolunga la sua ombra sul benessere psicologico delle persone, con effetti a breve e a lungo termine i cui esiti si potranno vedere anche nei prossimi anni”, spiega Claudio Mencacci, Direttore Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale, ASST Fatebenefratelli-Sacco, Milano. "Nell’arco di qualche mese si è verificato, infatti, un aumento dei sintomi depressivi nella popolazione a causa della concomitanza di più fattori di rischio quali distanziamento sociale, solitudine, paura del contagio ed evitamento, ma prevediamo anche una crescita delle depressioni dovuta da un lato alle conseguenze di una serie di lutti complicati e dall’altro dall’imminente crisi economica". L'economia L'economia ha un ruolo importante in questo contesto. "Basso reddito e aumento della disoccupazione determineranno, secondo diversi studi, un rischio 2-3 volte superiore di ammalarsi. In particolare, la disoccupazione generata dalla crisi economica potrebbe determinare un aumento dai 150-200.000 casi di depressione, pari al 7% delle persone depresse. Con queste prospettive il numero di depressi si appresta a raggiungere quello di malati di diabete in Italia, con un maggior impatto della depressione sia a livello economico sia sulla qualità di vita", spiega Mencacci. La depressione è riconosciuta dall’Oms come prima causa di disabilità a livello mondiale e riguarda circa 3 milioni di italiani, di cui circa 1 milione soffre della forma più grave, la depressione maggiore. Da una stima dei dati Istat, oltre 150.000 persone soffrono di depressione maggiore in Lombardia. Tra questi 21.000 non rispondono ai trattamenti, secondo la rielaborazione su base regionale dei dati dello studio epidemiologico italiano Dory, volto a identificare i pazienti affetti da depressione resistente attraverso un’analisi di database amministrativi. Togliere lo stigma Istituzioni e rappresentati locali a livello medico, assistenziale e sociale stanno cercando di capire come affrontare la malattia, superare lo stigma associato alla depressione, facilitare l’accesso alla diagnosi e alle cure più appropriate. Fondazione Onda-Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, ha organizzato una serie di incontri a Milano sul tema. Tavole rotonde che fanno parte del percorso di sensibilizzazione per presentare il Manifesto Uscire dall’ombra della depressione, ma anche del Libro bianco sulla salute mentale in Italia. Iniziative realizzate con il patrocinio di Regione Lombardia, delle società scientifiche Sip - Società Italiana di Psichiatria e Sinpf - Società Italiana di Neuropsicofarmacologia, di Cittadinanzattiva e Progetto Itaca, ed è stata organizzata con contributo incondizionato di Janssen Italia. I costi della malattia "I costi diretti non sono l’unico tassello da tenere in considerazione se si vuole cogliere il peso economico e sociale di questa patologia. I costi indiretti (sociali e previdenziali) la fanno da padrone rappresentando il 70% del totale dei costi della malattia - spiega Francesco Saverio Mennini, professore di Economia Sanitaria e Direttore del Eehta del Ceis dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “Basti pensare ai costi previdenziali legati all’elevato numero di giorni di assenza dal lavoro causato dalla depressione maggiore, alla perdita di produttività legata al presenteismo. Visto l’incremento previsto del numero delle persone con depressione in seguito alla pandemia di Covid-19, il peso economico della malattia è destinato ad aumentare". Anche il costo legato agli assegni ordinari di invalidità e alle pensioni di inabilità, che si aggira intorno ai 106 milioni di euro, pari a 9.500 euro annui a beneficiario, rientra tra quelli indiretti legati alla malattia. In Lombardia, secondo un’analisi dell’Eehta del Ceis (Economic Evaluation and HTta Ceis) basata su dati del 2015, tali prestazioni di invalidità previdenziale vengono concesse a 1,3 persone con depressione maggiore ogni 100.000 abitanti. Analizzando la situazione per provincia, a Cremona sono state accolte 2,8 domande di invalidità previdenziale, a cui segue Como con 2,7, Varese con 1,8, Mantova con 1,5, Bergamo con 1,4, Pavia con 1,1, Milano e Brescia con 1,0 e infine Sondrio con 0,0 ogni 100.000 abitanti. "Questi dati testimoniano che stiamo parlando di una malattia fortemente invalidante, che impatta in maniera significativa sulla vita dei pazienti e della società, da molteplici punti di vista - conclude Mennini -. Gestire il paziente in una fase precoce della malattia consente non solo un miglioramento della sua qualità di vita, ma anche una riduzione dell’impatto dei costi per il sistema sanitario e sociale". Articolo di di VALERIA PINI, tratto da Repubblica.it Articolo tratto dalla pagina fb dell'Ordine degli Psicologi della Toscana ![]() “Quella del 2020 sarà una maturità tutta nuova: niente scritti e un orale più complesso in presenza. Ansia, stress, facilità al pianto ed alta emotività sono alcuni dei segnali psicologici che si possono incontrare in chi deve svolgere l’esame di maturità e sono stati d’animo fisiologici e naturali. È un rito di passaggio e provocare la giusta tensione è il suo compito. Che il lockdown sia stato particolarmente pesante per gli studenti è cosa nota e in questa fase 3 è sempre più frequente che si manifestino o si amplifichino sintomatologie di ansia, alterazioni del tono dell’umore, paure e fobie sociali che gli adulti di riferimento potranno registrare come preoccupanti”. A sottolinearlo la presidente Maria Antonietta Gulino a pochi giorni dall’inizio degli esami di maturità per gli studenti toscani. “L’esame di maturità segna un passaggio psicologico e sociale che può provocare uno stress, che è solitamente normale ma non da sottovalutare oggi dopo un periodo così teso e surreale come è stato il lockdown per ciascuno di noi – spiega la presidente - Come tutte le prove di passaggio del ciclo di vita di un individuo va dato risalto alla prova stessa. È pertanto necessario sottolineare che non è utile cedere ai desideri di semplificare le procedure e in generale la vita dei ragazzi a tutti i costi”. “Gli esami – aggiunge la presidente - servono anche per imparare a tollerare la frustrazione, per misurarsi con gli altri e capire qualcosa di più del nostro funzionamento. Bisogna imparare ad affrontare certe prove stressanti, se si vuole diventare grandi, e non saltarle o renderle più facili a tutti i costi. Ciò vuol dire dare valore al proprio tempo, alla propria crescita, al proprio modo di affrontare ogni tappa della vita”. “Con i portoni chiusi da febbraio i ragazzi italiani si sono trovati a sostituire i banchi con il Pc, le finestre di scuola con quelle di casa, i familiari con gli amici di classe, lavorando comunque da casa con una serietà che ha stupito genitori ed insegnanti, ovvero gli adulti con cui in adolescenza sono per definizione in opposizione o in fase di differenziazione. Come a seguito di un incantesimo sono spariti, loro e i loro colleghi bambini, pare che ci si sia dimenticati di loro. La socialità dentro e fuori la scuola, gli obiettivi dei programmi formativi, la ricreazione o le assemblee segnano quella normalità necessaria ad un adolescente in crescita. Per fortuna l'incantesimo non ha fatto sparire l'esame di maturità, almeno quello è salvo. Per questo, nonostante le straordinarie modalità Covid-19, l’esame di maturità è e rimane un pezzo articolato di un importante percorso individuale”. “In questi casi il supporto di uno psicologo può risultare di straordinaria importanza – conclude Gulino - Spesso è lo psicologo della scuola che intercetta questi bisogni. Durante la pandemia alcune scuole non hanno interrotto gli sportelli psicologici durante la quarantena, mantenendo il servizio attivo continuando il servizio di sportello cominciato a settembre. I genitori che rilevano disagi psicologici nei loro figli possono inoltre chiedere al medico di base o cercare uno psicologo sul sito dell'ordine regionale”. |
AuthorCarmen Furci Archives
Novembre 2021
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