Il presidente dell’Ordine David Lazzari: «Nell’ultima rilevazione (Piepoli) ansia elevata per alunni e professori» «Si è pensato solo e soprattutto ai banchi e ai pulmini. Ma la scuola non è una catena di montaggio, è un luogo di relazioni e di emozioni». Nel fatidico giorno del ritorno in classe dopo sei mesi, il presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi David Lazzari interviene ricordando quanto sia difficile la ripresa. Dimostrata anche dai numeri: in un report dell’Onu, nell’indagine che riguarda la popolazione italiana, risulta che in 8 casi su 10 si sono rilevati problemi di concentrazione nei ragazzi, e in 4 su 10 problemi di ansia. Non solo: «Nella nostra ultima rilevazione, che facciamo periodicamente come Ordine, insieme all’istituto Piepoli sui livelli di stress, a settembre il 34% della popolazione, dato che riguarda anche Roma, presenta stress elevato: sempre 10-15 punti sopra rispetto quella che è la media normale». Quindi «noi psicologi siamo decisamente preoccupati», spiega David Lazzari, «perché i dati ci dicono che torna in classe una popolazione stressata, sia studenti che docenti. Così a queste persone “stressate” si sta chiedendo di mettersi alla prova in maniera importante e di affrontare una situazione difficile e complessa: oltre al normale processo di apprendimento, ci sono i timori legati al contagio e ai processi relazionali, che, soprattutto negli adolescenti sono molto delicati perché vivono in maniera molto intensa il giudizio del gruppo, con un grandissimo bisogno di conformarsi». E si passa quindi al delicato compito di insegnanti e genitori: come si dovrebbero comportare? «Da parte dei docenti c’è la necessità di far rispettare le regole ma anche di attivare processi relazionali non sempre facili», risponde David Lazzari: «Sentire le paure loro ed anche quelli dei ragazzi. Tutto questo richiede un equilibrio molto delicato. Per questo dico di creare un clima di alleanza e di cooperazione. I comportamenti non dipendono da regole astratte ma da come percepiamo le cose e dai nostri vissuti». Quanto ai genitori «il consiglio è di porsi più del solito in un atteggiamento di dialogo e di ascolto dei figli, affinché non si vergognino di tirar fuori le loro preoccupazioni ed i loro timori. E, soprattutto per i più piccoli, trovando un linguaggio adatto alla loro età nello spiegare il perché delle regole di protezione. Ma quando vedono che c’è un disagio eccessivo chiedano aiuto ad un esperto».
Proprio per questo il presidente dell’Ordine degli Psicologi richiede che venga attuato con urgenza l’accordo tra governo e sindacati del 6 agosto dove si parla di dotare gli istituti di competenze psicologiche. «È un discorso è di grande urgenza altrimenti la scuola rischia di essere un ulteriore incubatore di disagio. Si deve ricorrere all’aiuto dello psicologo in maniera non episodica ma sistematica». Di Lilli Garrone, tratto da corriere.it
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A un mese dalla guarigione, il 56% di chi ha ricevuto trattamenti ospedalieri per Covid 19 soffre di ansia, depressione o stress post-traumatico. C'è urgente bisogno di seguire, valutare e curare anche i guariti da Covid 19: secondo uno studio condotto dal San Raffaele di Milano, oltre la metà delle persone che hanno ricevuto una qualche forma di trattamento ospedaliero per CoViD-19 riporta almeno un sintomo di disturbi come ansia, depressione, stress post-traumatico, insonnia o altre manifestazioni. La storia personale di ciascuno, la durata del ricovero e anche il genere del paziente influiscono sull'entità di questi strascichi, che vanno trattati prima che possano degenerare in condizioni croniche fortemente debilitanti. TRACCE PERSISTENTI. I ricercatori hanno indagato sulla presenza di sintomi di natura psichiatrica in 402 persone dell'età media di 58 anni guariti dal Covid, 265 dei quali uomini. Per 300 pazienti si era reso necessario il ricovero in ospedale, mentre un centinaio era stato seguito dai medici dell'ospedale nelle proprie case. Le valutazioni sono state condotte attraverso colloqui clinici e questionari di autovalutazione. Il 56% dei soggetti seguiti ha riportato un punteggio clinico compatibile con almeno un disturbo mentale: stress post-traumatico nel 28% dei casi, depressione nel 31%, ansia per il 42% degli intervistati. Il 40% ha dichiarato di soffrire di insonnia, il 20% ha manifestato i sintomi di un disturbo ossessivo-compulsivo (caratterizzato da pensieri intrusivi, oltre a comportamenti rituali e ripetitivi). CHI SOFFRE DI PIÙ. Le donne sembrano più soggette alle conseguenze psichiatriche della malattia, nonostante siano in genere colpite da forme meno gravi dell'infezione: «Questo conferma quello che già sapevamo, ossia la maggiore predisposizione della donna a poter sviluppare disturbi della sfera ansioso-depressiva, e ci conduce a ipotizzare che questa maggiore vulnerabilità possa essere dovuta anche al diverso funzionamento del sistema immunitario nelle sue componenti innate e adattive», spiega Francesco Benedetti, psichiatra che coordina l'Unità di ricerca in Psichiatria e psicobiologia clinica dell'IRCCS Ospedale San Raffaele.
Chi aveva già alle spalle una storia di diagnosi psichiatriche ha visto questi sintomi peggiorare. Ma il dato forse più sorprendente è che i pazienti assistiti nel proprio domicilio sono risultati soffrire più degli altri di ansia e disturbi del sonno, mentre la durata del ricovero è inversamente proporzionale a sintomi di stress post-traumatico, depressione, ansia e disturbi ossessivo-compulsivi. Il team spiega così questo aspetto: «Considerando la maggiore gravità del Covid nei pazienti ospedalizzati, le osservazioni suggeriscono che un minore supporto sanitario - che è ciò che è successo ai pazienti seguiti a casa - potrebbe aver aumentato l'isolamento sociale e la solitudine tipici della pandemia». Si conferma quindi l'importanza della presenza del personale (medico, infermieristico e di supporto) per lenire la solitudine e il senso di spaesamento tipici del Covid. LE CAUSE. All'origine dei disturbi potrebbero esserci gli stati infiammatori associati alla malattia e legati alla risposta immunitaria dell'organismo. È noto infatti che gli stati infiammatori, anche conseguenti a infezioni virali, sono fattori di rischio per disturbi come la depressione. Ma un impatto importante potrebbero averlo avuto anche fattori sociali, come lo stress psicologico associato a una condizione sconosciuta e potenzialmente letale, l'isolamento forzato da parenti e personale medico, la paura di trasmettere il virus ad altri, il pregiudizio che purtroppo sempre ruota attorno a chi è malato. Di Elisabetta Intini. Tratto da www.focus.it Anche quest’anno è arrivato il momento in cui sento di aver proprio bisogno di una pausa.
E anche quest’anno, l’invito che mi rivolgo e vi rivolgo è: troviamo del tempo per noi stessi, per osservare meglio quello che ci sta intorno e andare e alla ricerca della nostra “pausa” ideale. I modi per riposarsi sono diversi: andare al mare, andare in montagna, leggere, dormire, passeggiare, visitare un museo e tanto altro. Ma ciò che più conta è tuttavia l’intenzione di fermarsi, respirare e occuparsi al meglio di noi stessi, per “ricaricare il nostro carburante interiore”. Lo studio di psicologia e psicoterapia di Via delle Mantellate 3 a Firenze rimarrà chiuso dal 10 al 31 agosto, per la mia “pausa” ideale. Buona vacanze! Che relazione c'è tra nevroticismo, estroversione, apertura all’esperienza, coscienziosità, gradevolezza e la scelta del cibo e dello stile alimentare? Sembra che la personalità influenzi il modo di alimentarsi e possa, quindi, essere considerata un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche. Un recente studio condotto da Keller e Siegrist (2015) si è proposto di indagare se i tratti di personalità influenzano le scelte alimentari delle persone o l’adozione di un particolare stile alimentare. Nello specifico, viene considerato il modello dei “Big Five” (McCrae & Costa, 1997), il quale caratterizza gli individui in termini di pattern relativamente duraturi e universali di pensieri, sentimenti e azioni (McCrae & Costa, 2008): elevati livelli di nevroticismo comportano un maggior rischio di depressione, ostilità e sentimenti di inutilità; elevati livelli di estroversione si associano all’essere attivo, ottimista e assertivo; elevata apertura all’esperienza comporta maggiore curiosità e capacità di immaginazione; le persone con elevata coscienziosità tendono ad essere più ordinati e autodisciplinati; infine, la gradevolezza è caratterizzata da maggior altruismo e simpatia (McCrae & Costa, 1997, 2008). Per quanto concerne gli stili alimentari, Keller e Siegrist (2015), hanno individuato il “mangiare emotivo”, ovvero il consumo di cibo in risposta a emozioni negative o a stress, il “mangiare esterno”, ossia in risposta a stimoli alimentari esterni, e, infine, “l'alimentazione moderata”, cioè la restrizione consapevole di cibi energetici (Van Strien & Van de Laar, 2008). La ricerca considera 951 partecipanti, a cui sono stati somministrati tre differenti questionari. I tratti di personalità sono stati valutati utilizzando il NEO Five – Factor Inventory (Costa e McCrae 1992): ai partecipanti è stato chiesto di indicare quanto bene ognuno dei 60 item li ha descritti, su una scala Likert a 5 punti (da per nulla accurato a molto accurato). Gli stili alimentari, invece, sono stati valutati con l’ Eating Behavior Questionnaire (DEBQ) (Van Strie net al. 1986), composto da 33 items a cui i partecipanti hanno risposto tramite una scala likert a 5 punti (da mai a molto spesso): la scala dell’alimentazione moderata comprende 10 items che misurano il controllo del peso, un tipico item è “quando hai messo su peso, mangi meno di quanto mangi di solito?” oppure “Tieni conto del tuo peso mentre mangi?”; la scala emozionale della DEBQ è composta da 13 items che indagano il mangiare in risposta a stati emotivi negativi, ad esempio “Quando sei irritato ti viene voglia di mangiare?”; la scala esterna, invece, si compone di 10 items che misurano il consumo di cibo in risposta a stimoli esterni, indipendentemente dallo stato di fame o sazietà, ad esempio “Se il cibo è buono, mangi più del solito?” oppure “Se vedi che altri mangiano, viene anche a te la voglia di mangiare?”. Infine, è stato utilizzato il Food Frequency questionnaire (FFQ) per indagare con quanta frequenza vengono consumati cibi dolci, salati, verdure, insalata, frutta, carne e bevande zuccherate. Rispetto agli uomini, le donne del campione avevano un maggiore livello di nevroticismo, di apertura all’esperienza e di gradevolezza; inoltre, risultano più contenute nel mangiare, consumano più frutta, verdura e insalata, meno carne e meno bevande zuccherate. E’ inoltre emerso che i fattori di personalità correlano con gli stili e le scelte alimentari delle persone. Nello specifico, le persone estroverse, con una fitta rete sociale (Friedman et al. 2010), avendo più spesso occasione di uscire fuori a pranzo o a cena, sono più esposti al cibo buono ed esteticamente invitante, ovvero la cosiddetta “alimentazione esterna”. I soggetti con elevato nevroticismo tendono ad avere uno stile alimentare più improntato all’emotività e all’esterno, oltre che ad essere poco moderato e a scegliere in misura pressoché simile cibi dolci e salati. Al contrario, individui coscienziosi tendono ad avere uno stile alimentare poco emotivo ed esterno e più propenso alla dieta, prediligendo il consumo di verdure e insalate. Coloro che sono più aperti alle nuove esperienze privilegiano frutta e verdura, a scapito di carne e bevande zuccherate, esattamente come i soggetti con il tratto di personalità “gradevolezza”. I risultati rivelano anche che l’alimentazione esterna, a sua volta, si associa negativamente al consumo di frutta, che invece è associata positivamente con l’alimentazione moderata. Lo stile alimentare moderato si associa in modo positivo al consumo di verdura e insalata. L’apertura all’esperienza non ha mostrato di avere effetti significativi sul dolce e sul salato, a differenza della sovralimentazione, dell’alimentazione esterna ed emotiva che hanno una correlazione positiva. Inoltre, avere un’alimentazione moderata correla negativamente con il consumo di cibi dolci e salati. L’estroversione sembra essere l’unico tratto fra quelli analizzati ad avere un effetto positivo sul consumo di carne e sul consumo di bevande zuccherate, così come soltanto l’alimentazione esterna si associa positivamente al consumo di carne e di bevande zuccherate, mentre tutti gli altri stili e tratti correlano negativamente. Questi risultati hanno chiaramente dimostrato che le caratteristiche di personalità giocano un ruolo alquanto importante nella scelta del cibo, così come nello stile alimentare in sé. E’ chiaro che individui nevrotici e emotivamente instabili adottino un’alimentazione emotiva poco salutare, utilizzando il cibo proprio come strumento per far fronte alle emozioni negative (Groesz et al., 2012). Al contrario, soggetti con alti livelli di coscienziosità sembrano adottare un’alimentazione più equilibrata, escludendo cibi poco sani, probabilmente grazie alla propria capacità di evitare o di gestire i fattori stressanti (Shanahan et al., 2014). L’apertura nei confronti delle esperienze gioca un ruolo importante nell’adesione dei singoli ad una dieta sana ed equilibrata (Tiainen et al., 2013): probabilmente questi soggetti sono sempre stati più predisposti ad assaggiare un’ampia gamma di alimenti, incluso cibi più amari, ma certamente più sani come frutta e verdura (Birch, 1999). Infine, la gradevolezza correla negativamente, mentre l’estroversione positivamente con il consumo di carne. Nel primo caso, probabilmente il tratto viene proiettato ed esteso, non soltanto alle persone, ma anche agli animali, tant’è che le motivazioni alla base, spesso, sono etiche, incentrate sulla simpatia e l’altruismo (Forestell et al., 2012). Nel secondo caso, l’estroversione è stata associata con l’alimentazione esterna, a sua volta associata con un maggior consumo di carne, probabilmente sia per il costo relativamente inferiore, che per la maggiore praticità nel cucinarla rispetto, ad esempio, alla verdura. Interessante è sottolineare il paradosso tra l’estroversione, come tratto benefico e protettivo per la salute mentale, e l’estroversione come fonte di rischio per un’alimentazione poco corretta, in quanto espone i soggetti al consumo di cibi che fanno poco bene se consumati frequentemente. Così, la personalità di una persona può essere un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche come quelle cardiovascolari, cancro o diabete. Infine, di grande interesse sarebbe esplorare eventuali correlazioni tra la personalità e la scelta di intraprendere un’alimentazione vegetariana o vegana.
Di Catia Lo Russo, tratto da www.stateofmind.it Nel ritorno alla normalità dopo la quarantena sembriamo tutti affetti da sindrome post traumatica28/6/2020 Non ricordo più dove e quando, ma ho letto la lettera di una donna americana a un giornale. Raccontava di aver superato da poco e dopo molta psicanalisi un serio disturbo: la misofobia. Aveva paura dello sporco e, più precisamente, dei germi. Dopo sette anni di compulsioni come il lavarsi ossessivamente le mani e darsi a pulizie maniacali ogni santo giorno, era riuscita a superarla. Si sentiva dunque pronta a tornare alla vita sociale senza rischiare, ogni volta, di mettere in crisi le sue relazioni personali e professionali a causa del suo disturbo. Purtroppo per lei – e per tutti noi –, però, era arrivato il coronavirus. La donna era riprecipitata nell’ansia, nel panico e, soprattutto, nella confusione. Raccontava che proprio quei comportamenti che le venivano contestati di solito, le cose per cui la gente la guardava in maniera strana e su cui alcuni “amici” facevano battutine sarcastiche, ora erano abitudini consigliate da tutti. Ogni mattina si svegliava chiedendosi quale fosse la realtà, quali azioni quelle giuste. Stava vivendo, di nuovo, da capo, una situazione molto difficile, la si chiamava PTSD, ovvero disturbo post-traumatico da stress. Questa cosa mi ha ricordato un bel film di Jeff Nichols, Take Shelter, in cui Curtis, uomo tranquillo che vive in una piccola cittadina con moglie e figlio, un giorno, dal nulla, inizia ad avere degli incubi, terribili visioni di una catastrofe imminente. La cosa lo porta ad agire in modo strano e paranoide e, quando comincia a costruire una sorta di rifugio anti-tornado nel cortile di casa, la tensione nel matrimonio e con gli altri cittadini aumenta. L’uomo è trattato come un pazzo per buona parte della pellicola, e a un certo punto se ne convince lui stesso. Non dirò come va a finire la sua storia, ma suppongo che tutti quelli che, prima della pandemia, avevano una qualche fobia o forma d’ansia sociale, sappiano com’è veder confermati dalla collettività timori catalogati solitamente come irrazionali e i propri sintomi come prassi consigliate per la sicurezza della salute pubblica. Personalmente, durante la Fase 1 della gestione dell’epidemia, mi sentivo assai più pronta di altri a restarmene tappata in casa e uscire solo per necessità non prorogabili tipo la spesa. C’ero già abituata, ero già in smart working, avevo già avuto una serie di problemi che mi avevano portata a restarmene sola nel mio appartamento. La differenza, stavolta, è che la mia situazione era condivisa con buona parte della popolazione. Per la prima volta, un mio periodo difficile, combaciava con quello degli altri. Per questo motivo, era assai più semplice esser sinceri sulle proprie paure e trovare solidarietà nel manifestare le proprie difficoltà. Questa sensazione però è durata poco. Non che io rimpianga il clima di terrore, l’ansia comune, le auto della Protezione Civile a ripetere di restare a casa, le canzoni dai balconi e i telegiornali con il bollettino di una guerra nuova, diversa da tutte le altre. È che anche la Fase 2 ha riportato alla mia memoria una storia lontana, del tutto privata e più difficile da spartire. Nel 2003, ho passato molti mesi dentro e fuori da un ospedale. Ero molto giovane e, in quel momento, mi interessava solo risolvere il mio problema – sperando vi fosse una soluzione – e tornare alla vita per come la conoscevo. Quello che non avevo messo in conto, però, è che l’anno successivo, prontissima per tornare alla tanto agognata normalità, avrei dovuto fare i conti con gli attacchi di panico connessi proprio al trauma che avevo vissuto senza riuscire a superarlo. Il PTSD è noto anche come “nevrosi da guerra”, perché inizialmente fu riscontrato nei soldati reduci da operazioni belliche particolarmente cruente. Il film American Sniper di Clint Eastwood, basato sull’omonima autobiografia di Chris Kyle, mostra in maniera piuttosto particolareggiata cosa succede in questi casi, anche se in realtà la patologia può svilupparsi anche senza esser mai stati coinvolti in vere e proprie azioni militari: gli eventi traumatici sono vari, in genere si tratta di situazioni violente in cui si subisce o assiste a eventi percepiti come al di fuori del nostro controllo, cose come un incidente stradale, un’aggressione o, nel mio caso, un’improvvisa malattia. Ci si ritrova, allora, a evitare situazioni e contesti che ricordano, simboleggiano o sono in qualche modo associati all’evento traumatico. Le limitazioni dal punto di vista delle relazioni sociali vengono di riflesso, perché spesso si smette di frequentare i luoghi abituali. Le abitudini cambiano. Vivere momenti sereni è quasi impossibile. Si resta costantemente in tensione e in allerta, ipersensibili alle possibilità di pericolo e in uno stato del genere, rilassarsi o calmarsi, persino addormentarsi, diventa complicato. Per chi soffre di PTSD anche le cose più semplici sono accompagnate da ansia e paura. La sensazione è quella che stia per accadere, di nuovo, qualcosa di tremendo. Questi sintomi possono comparire subito dopo il trauma e possono durare poco, ma di solito si sviluppano in seguito al superamento dell’esperienza, quando cioè ormai sembra tutto risolto o gli altri ci dicono che è effettivamente così. Proprio per questo motivo, l’ansia e la paura vengono nascoste, il problema sottaciuto, soprattutto per evitare di sentirsi dire ovvietà. Si cerca di convincersi che è tutto finito, che bisogna riaffacciarsi alla vita, che stia soltanto a noi. E purtroppo è una bugia. Una bugia che, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, ci stiamo dicendo in molti proprio in questi giorni. Anche se è difficile ammetterlo, infatti, è quello che sta accadendo a molte persone in questa Fase 2, di cauto ritorno alla normalità. Se durante la fase emergenziale avevamo imparato ad aprirci e a essere sinceri sui nostri timori, vuoi perché ci sembravano ampiamente condivisibili, vuoi perché li avevano e ammettevano di averli assai più persone del solito, in questa seconda fase è come essere tornati indietro, e risulta assai più complicato esprimere il proprio pensiero, la propria insicurezza e il proprio bisogno di procedere per gradi nella ripresa della vita pubblica e sociale senza subire giudizi di varia natura. ![]() Il richiamo alla produttività, l’esigenza di riprendere la quotidianità proprio dove l’avevamo lasciata all’inizio dell’anno, l’idea della ripresa e della ripartenza, non sono accompagnate, come speravamo ai tempi dell’Andrà tutto bene, dalla possibilità di rilassarsi, finalmente, e riaffacciarsi alla socialità con un grande sorriso e senza alcuna paura. Le parole d’ordine sono responsabilità, distanza sociale, mascherina, guanti e cozzano tutte con l’ideale di serenità a cui aspiravamo. È un compromesso. E i compromessi non solo ci spaventano e hanno lo stigma dell’espediente, ma sono molto più complicati da gestire delle limitazioni, come ha spiegato Thomas Kean, ex governatore del New Jersey e presidente della Commissione sull’11 settembre. Anche affidarsi al buonsenso, proprio e altrui, non è così semplice. E non lo è non solo perché abbiamo tantissimi esempi di situazioni o comportamenti a rischio, ma perché, attenuata la paura del coronavirus, abbiamo ricominciato ad averla degli altri. Mentre si paventa la figura dell’assistente civico per far rispettare le norme, mentre si criminalizza un’intera generazione che, sulla base di messaggi contraddittori, è tornata a frequentare luoghi di ritrovo pensati appositamente per loro e nuovamente aperti proprio per accoglierli, in tantissimi stanno sviluppando la strana sensazione definita sindrome della capanna. Scriveva Montaigne che “niente fissa una cosa così intensamente nella memoria come il desiderio di dimenticarla” e in Italia questo vale per moltissime cose, situazioni, avvenimenti che hanno segnato la storia del Paese. Siamo abituati a procedere per logiche emergenziali e, per ogni sconvolgimento, ci aspettiamo che una volta fuori dalla straordinarietà, sia risolto, mentre invece resta a farsi problema cronico. La verità è che per trasformare una ferita in cicatrice occorre non solo tempo, ma bisogna anche smettere di nasconderla. La verità è che non ci manca il lockdown, ma la possibilità di dare un nome alla nostra incertezza, chiamarla paura e sapere che nessuno ci giudicherà per averla perché, per la prima volta, la stiamo guardando in faccia tutti. Di RAFFAELLA R. FERRÉ su thevision.comS su U su I dati della Fondazione Onda-Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere
IN POCHI ATTIMI il virus si è portato via tutto: sogni, desideri. C'è chi ha dovuto tirare giù per sempre la saracinesca del negozio o del ristorante avviato dopo anni di fatica. Chi non è mai tornato in azienda perché è stato licenziato o chi si trova in cassaintegrazione. Da situazione il passo che porta alla depressione è breve. Molti non ce la fanno e si ammalano. Oggi in Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia, si stimano oltre 150.000 persone con depressione maggiore. Un problema globale tanto che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che l’emergenza Coronavirus riguardi anche la salute mentale. “L’emergenza sanitaria prolunga la sua ombra sul benessere psicologico delle persone, con effetti a breve e a lungo termine i cui esiti si potranno vedere anche nei prossimi anni”, spiega Claudio Mencacci, Direttore Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale, ASST Fatebenefratelli-Sacco, Milano. "Nell’arco di qualche mese si è verificato, infatti, un aumento dei sintomi depressivi nella popolazione a causa della concomitanza di più fattori di rischio quali distanziamento sociale, solitudine, paura del contagio ed evitamento, ma prevediamo anche una crescita delle depressioni dovuta da un lato alle conseguenze di una serie di lutti complicati e dall’altro dall’imminente crisi economica". L'economia L'economia ha un ruolo importante in questo contesto. "Basso reddito e aumento della disoccupazione determineranno, secondo diversi studi, un rischio 2-3 volte superiore di ammalarsi. In particolare, la disoccupazione generata dalla crisi economica potrebbe determinare un aumento dai 150-200.000 casi di depressione, pari al 7% delle persone depresse. Con queste prospettive il numero di depressi si appresta a raggiungere quello di malati di diabete in Italia, con un maggior impatto della depressione sia a livello economico sia sulla qualità di vita", spiega Mencacci. La depressione è riconosciuta dall’Oms come prima causa di disabilità a livello mondiale e riguarda circa 3 milioni di italiani, di cui circa 1 milione soffre della forma più grave, la depressione maggiore. Da una stima dei dati Istat, oltre 150.000 persone soffrono di depressione maggiore in Lombardia. Tra questi 21.000 non rispondono ai trattamenti, secondo la rielaborazione su base regionale dei dati dello studio epidemiologico italiano Dory, volto a identificare i pazienti affetti da depressione resistente attraverso un’analisi di database amministrativi. Togliere lo stigma Istituzioni e rappresentati locali a livello medico, assistenziale e sociale stanno cercando di capire come affrontare la malattia, superare lo stigma associato alla depressione, facilitare l’accesso alla diagnosi e alle cure più appropriate. Fondazione Onda-Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, ha organizzato una serie di incontri a Milano sul tema. Tavole rotonde che fanno parte del percorso di sensibilizzazione per presentare il Manifesto Uscire dall’ombra della depressione, ma anche del Libro bianco sulla salute mentale in Italia. Iniziative realizzate con il patrocinio di Regione Lombardia, delle società scientifiche Sip - Società Italiana di Psichiatria e Sinpf - Società Italiana di Neuropsicofarmacologia, di Cittadinanzattiva e Progetto Itaca, ed è stata organizzata con contributo incondizionato di Janssen Italia. I costi della malattia "I costi diretti non sono l’unico tassello da tenere in considerazione se si vuole cogliere il peso economico e sociale di questa patologia. I costi indiretti (sociali e previdenziali) la fanno da padrone rappresentando il 70% del totale dei costi della malattia - spiega Francesco Saverio Mennini, professore di Economia Sanitaria e Direttore del Eehta del Ceis dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “Basti pensare ai costi previdenziali legati all’elevato numero di giorni di assenza dal lavoro causato dalla depressione maggiore, alla perdita di produttività legata al presenteismo. Visto l’incremento previsto del numero delle persone con depressione in seguito alla pandemia di Covid-19, il peso economico della malattia è destinato ad aumentare". Anche il costo legato agli assegni ordinari di invalidità e alle pensioni di inabilità, che si aggira intorno ai 106 milioni di euro, pari a 9.500 euro annui a beneficiario, rientra tra quelli indiretti legati alla malattia. In Lombardia, secondo un’analisi dell’Eehta del Ceis (Economic Evaluation and HTta Ceis) basata su dati del 2015, tali prestazioni di invalidità previdenziale vengono concesse a 1,3 persone con depressione maggiore ogni 100.000 abitanti. Analizzando la situazione per provincia, a Cremona sono state accolte 2,8 domande di invalidità previdenziale, a cui segue Como con 2,7, Varese con 1,8, Mantova con 1,5, Bergamo con 1,4, Pavia con 1,1, Milano e Brescia con 1,0 e infine Sondrio con 0,0 ogni 100.000 abitanti. "Questi dati testimoniano che stiamo parlando di una malattia fortemente invalidante, che impatta in maniera significativa sulla vita dei pazienti e della società, da molteplici punti di vista - conclude Mennini -. Gestire il paziente in una fase precoce della malattia consente non solo un miglioramento della sua qualità di vita, ma anche una riduzione dell’impatto dei costi per il sistema sanitario e sociale". Articolo di di VALERIA PINI, tratto da Repubblica.it Articolo tratto dalla pagina fb dell'Ordine degli Psicologi della Toscana ![]() “Quella del 2020 sarà una maturità tutta nuova: niente scritti e un orale più complesso in presenza. Ansia, stress, facilità al pianto ed alta emotività sono alcuni dei segnali psicologici che si possono incontrare in chi deve svolgere l’esame di maturità e sono stati d’animo fisiologici e naturali. È un rito di passaggio e provocare la giusta tensione è il suo compito. Che il lockdown sia stato particolarmente pesante per gli studenti è cosa nota e in questa fase 3 è sempre più frequente che si manifestino o si amplifichino sintomatologie di ansia, alterazioni del tono dell’umore, paure e fobie sociali che gli adulti di riferimento potranno registrare come preoccupanti”. A sottolinearlo la presidente Maria Antonietta Gulino a pochi giorni dall’inizio degli esami di maturità per gli studenti toscani. “L’esame di maturità segna un passaggio psicologico e sociale che può provocare uno stress, che è solitamente normale ma non da sottovalutare oggi dopo un periodo così teso e surreale come è stato il lockdown per ciascuno di noi – spiega la presidente - Come tutte le prove di passaggio del ciclo di vita di un individuo va dato risalto alla prova stessa. È pertanto necessario sottolineare che non è utile cedere ai desideri di semplificare le procedure e in generale la vita dei ragazzi a tutti i costi”. “Gli esami – aggiunge la presidente - servono anche per imparare a tollerare la frustrazione, per misurarsi con gli altri e capire qualcosa di più del nostro funzionamento. Bisogna imparare ad affrontare certe prove stressanti, se si vuole diventare grandi, e non saltarle o renderle più facili a tutti i costi. Ciò vuol dire dare valore al proprio tempo, alla propria crescita, al proprio modo di affrontare ogni tappa della vita”. “Con i portoni chiusi da febbraio i ragazzi italiani si sono trovati a sostituire i banchi con il Pc, le finestre di scuola con quelle di casa, i familiari con gli amici di classe, lavorando comunque da casa con una serietà che ha stupito genitori ed insegnanti, ovvero gli adulti con cui in adolescenza sono per definizione in opposizione o in fase di differenziazione. Come a seguito di un incantesimo sono spariti, loro e i loro colleghi bambini, pare che ci si sia dimenticati di loro. La socialità dentro e fuori la scuola, gli obiettivi dei programmi formativi, la ricreazione o le assemblee segnano quella normalità necessaria ad un adolescente in crescita. Per fortuna l'incantesimo non ha fatto sparire l'esame di maturità, almeno quello è salvo. Per questo, nonostante le straordinarie modalità Covid-19, l’esame di maturità è e rimane un pezzo articolato di un importante percorso individuale”. “In questi casi il supporto di uno psicologo può risultare di straordinaria importanza – conclude Gulino - Spesso è lo psicologo della scuola che intercetta questi bisogni. Durante la pandemia alcune scuole non hanno interrotto gli sportelli psicologici durante la quarantena, mantenendo il servizio attivo continuando il servizio di sportello cominciato a settembre. I genitori che rilevano disagi psicologici nei loro figli possono inoltre chiedere al medico di base o cercare uno psicologo sul sito dell'ordine regionale”. ![]() Perché un sostegno psicologico. L’emergenza sanitaria legata al Covid-19, per molte persone ha rappresentato e sta rappresentando un evento “traumatico”, che ha stravolto completamente la vita e le abitudini di tutti: lunghi periodi di isolamento e conseguente riduzione delle relazioni sociali; perdita del lavoro; perdita degli affetti, malattia, riadattamento in generale della propria quotidianità e del rapporto con i familiari, utilizzo obbligatorio di precauzioni individuali in ogni situazione (distanziamento sociale, mascherine, guanti, lunghe file, ecc.). Il ritorno alla “normalità”, inoltre, potrebbe generare ansia, incertezza, paura, smarrimento, e la necessità di avere uno stimolo psicologico necessario alla resilienza, alla motivazione, risulta fondamentale per rimettersi in cammino. I colloqui individuali, cosi come i gruppi di incontro, rappresentano il “luogo” dove sperimentare sostegno sociale, confronto, autocontrollo, accettazione delle proprie responsabilità, utilizzo dei processi di risoluzione dei problemi, rivalutazione positiva della propria persona: i partecipanti sperimentano cioè la messa in atto di strategie di empowerment, in grado cioè di portare al cambiamento positivo della persona. Cosa offre Rete Pas Il servizio di sostegno psicologico post covid a cura della psicologa e psicoterapeuta Carmen Furci è attivo presso gli ambulatori Pas , e offre due tipi di percorsi: colloqui individuali o gruppi d’incontro, a seconda delle necessità della singola persona, in totale sicurezza garantendo le misure volte a prevenire il contagio. Per info e prenotazioni chiamare il numero unico 055 71.11.11 https://www.retepas.com/ambulatori/10501-sostegno-psicologico-post-covid/ Fase 2, riprende l’attività di psicoterapia in studio: misure di sicurezza e tariffe ridotte6/5/2020 Comincia, progressivamente, a riprendere la nostra quotidianità. Da venerdì 22 maggio ricomincia l’attività di psicoterapia e di supporto psicologico in studio, in via delle Mantellate 3 a Firenze, e con alcune importanti novità:
- adozione di tutte le misure necessarie per la prevenzione del rischio contagio da coronavirus, per consentire lo svolgimento delle sedute in piena e totale sicurezza (utilizzo di mascherine, sanificazione delle mani con gel idroalcolico, distanza minima di 1,82 metri fra le persone, areazione costante dei locali, sanificazione degli studi prima e dopo ogni seduta, ecc). - Tariffe ridotte, perché intraprendere un percorso di supporto psicologico o di psicoterapia, in un momento come questo, può essere utile per affrontare le proprie difficoltà. Perché come diceva Albert Einstein, nel mezzo delle difficoltà, nascono le opportunità. Per info e prenotazioni clicca qui oppure 370 3090715 Riporto un articolo pubblicato sul sito www.auxologico.it a cura di Roberto Roberto Cattivelli e Anna Guerrini Usubini, che forniscono alcuni suggerimenti importanti e che condivido su come riprendere la nostra quotidianità dopo la quarantena imposta ad ognuno di noi dal Covid-19.
Il Coronavirus (Covid - 19) è entrato nelle nostre vite all'improvviso, prepotentemente, e ci ha costretto a modificare radicalmente i nostri stili di vita e a riorganizzarne la quotidianità. Siamo stati chiamati ad affrontare la sfida dell’isolamento, che ha comportato anche l’emergere di emozioni contrastanti, talvolta difficili da gestire, come l’ansia, la paura e l’incertezza. Per fronteggiare questo “evento traumatico” abbiamo risposto con resilienza, ovvero la capacità di far fronte ad eventi traumatici in maniera positiva, riorganizzando la nostra vita di fronte alle difficoltà, per uscirne più forti di prima e trasformati. RIPARTIRE DOPO IL CORONAVIRUS Adesso ci troviamo di fronte a una nuova sfida, connessa a quella affrontata sino a qui: si tratta della sfida della ripartenza, che non significa tornare al mondo così come lo abbiamo lasciato prima della diffusione della pandemia, ma imparare a convivere con il virus, attraverso una lenta e graduale ripresa delle principali attività lavorative e sociali, senza mai dimenticare le precauzioni sin qui adottate. Ma allora qual è la vera sfida di questa seconda parte della pandemia da SARS COV 2? E quali strumenti abbiamo per fronteggiarla? Si tratta di trovare una rinnovata capacità di adattamento, non più all’isolamento ma alla convivenza con il virus, che richiede la capacità di essere flessibili. LE EMOZIONI DELLA "FASE 2" La fase della riapertura potrebbe rappresentare il palcoscenico di nuove emozioni, come l’euforia per la ripresa, la paura del nemico ancora presente, l’ansia per la prospettiva di un allenamento delle restrizioni quando per alcuni è ancora troppo presto e la frustrazione per ciò che ancora non possiamo fare. Impariamo ad accogliere tutte queste emozioni, ricordandoci che sono del tutto normali e fanno parte dell’esperienza di molti, non sono solo nella nostra testa. Riconosciamole come presenti, ma non come qualcosa di cui sbarazzarsi. Teniamole lì, né troppo vicine a noi rischiando così di venirne travolti, né troppo lontane, rischiando di negarle. Per molti, la fase dell’isolamento ha costituito una opportunità unica di riscoperta di passioni interessi, hobby da tempo dimenticati, prima che la pandemia si appropriasse della nostra routine. Non perdiamo ciò che di buono abbiamo riscoperto per noi, per i nostri cari, anche quando riprenderemo le attività lavorative e ludico-ricreative e la nostra vita tornerà ad essere piena come un tempo. 4 CONSIGLI +1 PER RICOMINCIARE DOPO LA QUARANTENA Allora ecco qualche consiglio pratico. Non si tratta di una ricetta magica che risolverà ogni problema, ma qualche piccola indicazione utile alla ricerca della strada per fronteggiare le difficoltà del momento. 1 VIVERE APPIENO Consideriamo quello che per noi è importante, ciò che rende la nostra vita ricca di valore e di senso e mettiamo in atto ogni giorno azioni concrete per vivere una vita piena di significato. Vogliamo essere brave persone? Come possiamo comportarci per essere tali? Cosa possiamo fare per aiutare gli altri, se per noi è importante dare il nostro contributo? Cosa mi rende un buon padre, una buona madre, un buon partner, un buon amico? Cosa posso fare per esserlo? 2 MANTENERE LE BUONE ABITUDINI Manteniamo le buone abitudini che abbiamo intrapreso nel periodo di quarantena, come cucinare, leggere un buon libro, fare sport, dedicarsi alla cura di sé. Tutte cose che abbiamo riscoperto quando la nostra vita si è fermata, ma se ci fanno stare bene, manteniamole anche in seguito. È importante concedersi del tempo da dedicare ad attività appaganti. 3 ACCOGLIERE LE EMOZIONI Entriamo in contatto con le nostre emozioni, anche quelle più spiacevoli, senza allontanarle, né esserne sopraffatti, riconoscendo che in un dato momento della giornata si sta provando quella emozione specifica. Ripetiamolo a noi stessi, se necessario, attraverso il dialogo interiore raccontiamoci quello che stiamo provando. Così facendo l’intensità dell’emozione provata piano piano si abbasserà, e saremo capaci di disinnescare qualsiasi reazione impulsiva dettata dalle emozioni che stiamo provando. In questo modo riusciremo a mantenere il controllo di noi stessi. 4 PRENDERE COSCIENZA Ricordiamoci che siamo persone resilienti, capaci di fronteggiare le difficoltà in maniera positiva. La forza è dentro di noi, ma a volte siamo noi i primi a non accorgercene. Ci potranno essere naturali reazioni contrastanti alle prossime disposizioni. Alcuni potranno reagire con un aumentato senso del pericolo, per la paura che i contagi possano tornare a risalire, a fronte delle prime riaperture, altri invece reagiranno con foga all’idea di riappropriarsi di libertà sin qui negate, mettendo in atto comportamenti poco responsabili. Non dimentichiamoci di agire responsabilmente, nel rispetto delle normative dettate dal governo, ricordandoci che il comportamento responsabile di ogni cittadino è l’arma a disposizione per fronteggiare il nemico comune, ancora presente. 5 CHIEDERE AIUTO Ma se per caso, sentirai la sensazione di perdere il controllo di quello che pensi, provi e fai non dimenticare che è possibile chiedere un aiuto. Intraprendere un percorso di supporto psicologico può essere utile per affrontare le proprie difficoltà, in un momento come questo. Psicologi e psicoterapeuti sono a disposizione, attraverso contatti telefonici oppure online per accogliere le richieste di auto. |
AuthorCarmen Furci Archives
Novembre 2021
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